Javier Sicilia, poeta, ha cominciato a camminare il 28 marzo del 2011. Ha smesso di scrivere ed ha cominciato a camminare perché, intorno a lui, il mondo s’era fermato. E perché, in quel mondo immobile e crudele, ogni poesia era stata – come lui stesso ha scritto prima di gettare la penna alle ortiche – soffocata “desde adentro” da un dolore (…y el dolor no se me aparta) destinato ad accompagnarlo per sempre.
Javier Sicilia ha cominciato a camminare il giorno in cui hanno ritrovato il cadavere di suo figlio, Juan Francisco (“Juanelo”). E, da allora, il suo cammino non ha conosciuto soste. Juanelo era morto – morto ammazzato – in uno di quei “fatti di sangue” che sono da tempo, in molte parti del Messico, una sorta di refrain della normalità, il telone di fondo della vita quotidiana. Un omicidio di massa. Uno di quegli omicidi – Juanelo venne ritrovato a Temixco, nei dintorni di Cuernavaca, dentro il bagagliaio di un auto-furgone insieme ai cadaveri mutilati di altre sette giovani – nei quali la ferocia sembra inseguire se stessa alla ricerca di nuovi record d’orrore. Un omicidio “per sbaglio” (Juanelo e i suoi amici erano stati scambiati per membri d’una banda rivale), appena una nota a piè di pagina nella storia della lotta al narcotraffico. O meglio: di quel nuovo capitolo nella storia d’una piaga antica e da tempo in suppurazione, trasformata in una sorta di cancro terminale dalla militarizzazione del conflitto decretata dal presidente Felipe Calderón nel 2007.
Ed è contro questa guerra che la grande marcia di Javier Sicilia – la marcia delle vittime di quella guerra, una “marcia per la pace” – ha cominciato a muoversi il 5 di maggio del 2011. E da Cuernavaca, dalla grande fontana de la Paloma de la Paz le cui acque erano state simbolicamente tinte di rosso, è arrivata fino a Città del Messico, dove il presidente uscente, Felipe Calderón, e tutti i candidati alle presidenziali hanno dovuto confrontarsi con quell’ “hasta la madre!” – non ne possiamo più – gridato dai padri rimasti senza figli, dai figli rimasti senza padre, dai fratelli e dalle sorelle che hanno perduto fratelli e sorelle, dalle donne e dagli uomini, dai giovani discesi non invitati sulla capitale. Javier Sicilia ed il suo seguito reclamavano la fine d’una guerra che mai avrebbe dovuto cominciare, perché – dicono – la guerra è oggi, a fronte della tragedia del narcotraffico, non la soluzione, ma il problema.
A quante orecchie è arrivato quel “hasta la madre!”? Se si guardano i risultati delle presidenziali – vinti dal “priista” Enrique Peña Nieto, ovvero, da quello che Sicilia aveva definito “il peggiore di tutti” – si direbbe a non molte. Ma la marcia continua…
Continua e, quel più conta, supera montagne e guada fiumi. Nel caso specifico: supera il Rio Grande, la metaforica muraglia cinese che, nelle Americhe, separa il Nord dal Sud. La lunga marcia della pace è, infatti, arrivata in questi giorni negli Stati Uniti. E va muovendosi da San Diego, California, verso est, seguendo il confine che, della sanguinosissima guerra combattuta in Messico è, per molti versi, il fronte principale. Perché? Perché, com’è più che noto, è proprio a nord del Rio Grande che si consuma la maggior parte della droga che, gestita dai cartelli del narcotraffico, attraversa il paese. E, ancor più perché è dagli Stati Uniti che – di contrabbando, ma acquistate in forma assolutamente legale – proviene il 70 per cento delle armi che i cartelli usano per combattersi tra loro e per combattere lo Stato.
Dopo avere affrontato la macabra “follia” della guerra dichiarata da Calderón – dichiarata e, probabilmente, perduta – Javier Sicilia sta ora dunque testardamente fronteggiando, disarmato, un’altra concatenata follia: quella d’un paese che, ricattato da una lobby potente e fanatica, vede nel diritto di possedere un’arma – qualsiasi tipo d’arma e qualsiasi quantità di armi – la fonte d’ogni libertà. Un’impresa non facile, come rivela un episodio ancora inconcluso. Tempo fa l’ ATF (il Bureau of Alcohol Tobacco and Firearms) organizzò un’operazione – chiamata “Fast and Furious” – che si proponeva di facilitare l’acquisto legale in Arizona di armi destinate ai cartelli messicani, con l’ovvio obiettivo di seguirne la pista per giungere ai capi del narcotraffico. L’operazione, mal concepita ed ancor peggio organizzata, finì, come si dice, a pallino. L’ATF non arrivò ai grandi capi dei cartelli, ma una delle armi contrabbandate venne usata per assassinare un agente della DEA (l’agenzia antidroga degli USA). E grande fu lo scandalo sollevato dai repubblicani. Non per l’operazione fallita o per l’agente morto, ma perché tutta l’operazione era stata– secondo i repubblicani – organizzata con il segreto obiettivo di favorire leggi che limitino la libera vendita delle armi…
Quale ascolto troverà Javier Sicilia in questi scenari? Difficile dirlo. Due giorni fa, nella Maricopa County, in Arizona, il poeta si è incontrato con la sua antitesi. Vale a dire: con il tristemente celebre sceriffo Joe Arpaio, noto per la sua fobia anti-immigranti, per le crudeli e fantasiose punizioni che, con fini di redenzione, infligge ai suoi prigionieri (specie se ispani) e per la sua sfrenata passione per le armi. Non sarà sicuramente, come recita la celebre battuta finale di Casablanca, l’ “inizio di una splendida amicizia”. Ma potrebbe, quantomeno, essere un inizio…