È il cemento armato il simbolo dell’Italia repubblicana; per spazzarlo via serve un referendum.
Confrontare le mappe dall’alto di oggi con quelle prima della guerra è impressionante: più del 40% del territorio libero è stato occupato, la parte urbanizzata si è moltiplicata per cinque, milioni gli ettari di terreno agricolo scomparso. Boschi, verde cittadino, fiumi, spiagge: nulla si è salvato per far spazio a quartieri dormitorio, capannoni, opere inutili, discariche.
Neanche la Conferenza episcopale italiana ci ha risparmiato: negli ultimi venti anni ha investito 1,5 miliardi di euro (quelli dell’otto per mille, le nostre tasse quindi) per costruire nuove chiese.
Il cemento è un business -siamo i principali produttori e consumatori d’Europa-, le cave sono ovunque e i Comuni si sono venduti il nostro territorio per incassare (e spenderli in clientele) gli oneri concessori che chi costruisce deve versare allo Stato. E chissenefrega se aumentano le frane e le esondazioni dei fiumi. O se poi i Comuni si indebitano per portare infrastrutture e servizi nei nuovi quartieri.
La speculazione non si fermerà neanche durante la crisi, visto che per i prossimi venti anni è prevista la scomparsa di 75 ettari al giorno. Come già successo con l’Ilva, i soliti soloni sviluppisti ci diranno che però l’edilizia dà lavoro a tante persone e che è una parte importante del nostro PIL.
Siamo, dunque, davanti a un bivio: continuare nell’edilizia che consuma il suolo oppure credere nell’edilizia che mette in sicurezza (leggasi rischio sismico), recupera e ricostruisce i tessuti urbani già esistenti.
In Germania e in Inghilterra ci hanno pensato per tempo ed è già legge.
In Italia, dove i costruttori sono spesso padroni dei quotidiani locali e foraggiano di pubblicità quelli nazionali, ancora una volta solo il voto popolare può dare la spinta decisiva.
Per la prima volta si potrebbe tenere un referendum per lo “stop al consumo di suolo”. È uno degli otto referendum cittadini promossi dal Comitato “RomaSìMuove”: otto referendum propositivi su ambiente, diritti e mobilità. Se riuscissimo a raccogliere le 50 mila firme previste dalla legge, i romani sarebbero chiamati a votare in contemporanea con le politiche 2013.
Trattandosi della Capitale d’Italia, ovviamente, avrebbero una valenza nazionale. Anche perché Roma è da sempre anche la capitale della speculazione, con gli oltre 23 milioni di metri cubi di appartamenti già previsti dalla gestione Alemanno dopo il sacco degli scorsi decenni. Vinciamo a Roma ed avremo un effetto a catena.
C’è tempo sino al 5 ottobre per le 50 mila firme, ma serve l’aiuto di tutti. Per far conoscere l’esistenza dei referendum ai romani disinformati dalla stampa dei palazzinari. Per riempire con qualche ora di volontariato i tavoli di raccolta firme o per una piccola donazione. Se vuoi dire basta al cemento, fatti vivo.