Ci abitavo sopra. Zona alta di Posillipo e fin dalla mia infanzia è rimasto indelebile il ricordo di un cielo rossastro dai mille bagliori. Mia madre mi raccontava che provenivano dalla fucina del dio vulcano, che della zona Flegrea aveva fatto il suo regno con le fornaci sempre accese. Il racconto mitologico serviva a coprire una “sporca” realtà di cui allora non si aveva piena consapevolezza.

Abitavo in linea d’aria poco distante dalle ciminiere di cui incosapevolmente per anni ho respirato i miasmi. Un campanello d’allarme, durante le colate di ghisa, era dato dalla polvere rossiccia che ricopriva l’abitacolo delle automobili parcheggiate davanti casa. Era l’unico segnale inquietante dell’attività ininterrotta degli altiforni di cui i boati squarciavano l’aria. Intanto inalavamo veleni a pieni polmoni ma non lo sapevamo. Oggi mentre si discute sul futuro dell’Ilva e dell’intera città di Taranto, a Napoli si tirano le somme dopo vent’anni dalla chiusura dell’acciaieria di Bagnoli, l’Italsider, uno dei più grandi impianti industriali del mezzogiorno, gemella dell’Ilva.

Ma i lavori di bonifica sono ancora in altissimo mare. E così l’ecomostro disteso su un’area di 10 milioni di metri quadrati sta ancora lì deturpando una delle baie più belle del mondo, dal mare blu, dai tramonti rosa, all’orizzonte le sagome di Procida e Ischia, a un’estremità del promontorio il castello aragonese di Baia, in mezzo magnificenti siti archeologici. Scandaloso e paradossale, l’Italsider ha chiuso, ma continua a “inquinare”. Chi non ricorda il sindaco Maurizio Valenzi, elmetto in testa, forte di un populismo spicciolo, che marciava sulla città al fianco degli operai per protestare contro la chiusura. Per loro aveva un solo significato, la perdita del posto di lavoro. La coscienza ecologica sarebbe venuta dopo. Negli ultimi anni, all’ombra delle ciminiere, sono stati aperti stabilimenti balneari, un po’ genere Malibù californiana, ma con una piccola limitazione non si può fare il bagno perché sabbia e mare sono ancora “intossicati”. E’ consigliabile rinfrescarsi sotto la doccia. E poi c’è quel pontile, una striscia di cemento lunga, lunga che si tuffa a mare, sembra toccare Procida ( serviva per imbarcare l’acciaio, adesso ci fanno jogging). Sta ancora lì, immutabile, fa parte, ormai, del paesaggio post-industriale. Mio nonno, Guido Gambardella, professore di impianti industriali alla Università di Napoli, già dagli anni ’50 aveva deplorato la scelta insensata di aver costruito un insediamento industriale in una delle zona archeologiche e paesaggistiche più belle d’Italia, compromettendo la vocazione turistica della città.

E invano continua a fare sentire la sua voce Lucia Varasano sulle pagine di “Mediapolitica”: “La stazione zoologica Turtle Point probabilmente aprirà i battenti a settembre, il cantiere di Napoli Studios, aperto nel 2009 e sospeso nel 2011, è in attesa dell’erogazione da parte della Regione Campania, così come gli altri progetti finanziati: il Polo Tecnologico dell’Ambiente, il Parco dello Sport, il Parco Urbano. E quella che doveva essere una città delle meraviglie, tra smantellamenti, vendite ai privati, braccio di ferro politico, inchieste giudiziarie, guerre degli ambientalisti, sembra essere una città fantasma.Per l’opera di bonifica iniziale erano stati stanziati circa 340 miliardi, senza che ci fosse un piano dell’opera. Dopo i primi sei anni di lavoro la somma era stata spesa quasi completamente e la bonifica era appena al 30%…”

Così si continua a gettare fumo negli occhi di chi ancora spera nella rinascita. E Napoli, vittima inerme del proprio disastro ambientale, continua ad annaspare in piani di rilancio, fra beghe politiche e intralci malavitosi.
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