Una quindicina di lavoratori è riuscita a salire, in accordo con le forze dell’ordine, sul traghetto della Tirrenia e all’ingresso del portellone di accesso per le auto hanno srotolato uno striscione con la scritta “stabilimento Alcoa” al grido di “lavoro, sviluppo e occupazione”. I passeggeri si sono affacciati e hanno applaudito
Sono arrivati a Cagliari in duecento pronti al blitz al porto. L’intenzione degli operai dell’Alcoa di Portovesme (Sulcis-Iglesiente) era quella di bloccare il traghetto della Tirrenia in arrivo da Napoli per le 11. Ma hanno trovato il cancello del molo chiuso e un dispiegamento di poliziotti in assetto antisommossa. Ed ecco quindi che alcuni di loro, cinque, si sono tuffati in mare e hanno aggirato l’ostacolo. Poi tutti i manifestanti sono riusciti ad entrare tra tafferugli e spintoni con le Forze dell’ordine, colpito leggermente anche il segretario territoriale della Cisl, Rino Barca. Protestano e chiedono l’attenzione nazionale, del governo tecnico, dei giornali e delle tv, la stessa riservata all’Ilva di Taranto.
E un decreto per il Sulcis. Perché il count down della fabbrica che produce alluminio è ormai agli sgoccioli. A settembre, il 3, è stato annunciata la fermata degli impianti e nessun potenziale acquirente ha presentato un piano industriale. Due giorni fa i lavoratori hanno paralizzato l’aeroporto di Cagliari-Elmas per qualche ora e si dicono pronti ad altre eclatanti manifestazioni. Come dimostrano i loro caschetti, fregiati dalle date delle tante trasferte a Roma. Tute, bandiere, slogan, fischietti e gli immancabili quattro mori e il coro “Lavoro, lavoro”, la protesta è andata avanti, in accordo con le forze dell’ordine. Circa venti manifestanti sono saliti sulla nave, dal portellone abbassato hanno esposto lo striscione e ricevuto gli applausi di solidarietà dei passeggeri e dei marittimi. Poi, quasi l’una, tutti in auto, molti verso la fabbrica per il turno pomeridiano. Saranno giorni di assemblee e incontri sindacali e politici, il 28 si riunisce il consiglio regionale e poi il vertice al Mise previsto per il 5 settembre.
La vertenza
La multinazionale americana Alcoa è in fuga dall’Italia e dalla Sardegna, sostiene di non poter produrre più a prezzi competitivi e l’annuncio choc della resa è datato dicembre dello scorso anno. Da allora gli impianti sono andati avanti in attesa che si presentassero degli acquirenti interessati alla cessione in un polo industriale, quello del Sulcis, ormai spezzettato con aziende che contano più cassintegrati che effettiva forza lavoro (dall’Eurallumina all’ex Ila) nella provincia più povera d’Italia. Il nodo cruciale, sostiene Barca, segretario territoriale della Cisl, è il prezzo dell’energia e le regole certe della Comunità europea. Insieme ai colleghi della Cgil, Franco Bardi, e della Uil, Daniela Piras promette di non dar tregua. “Se chiude davvero l’Alcoa è la fine, la ricaduta sarebbe drammatica per tutta l’Isola”. Nella fabbrica lavorano 500 diretti, di cui 70 interinali, ma l’indotto, secondo le stime del sindacato, arriva a contare mille posti. Nei mesi si sono profilate più ipotesi di acquirenti: tra tutti il fondo svizzero Aurelius (che ha fatto dietrofront tre settimane fa) e la multinazionale Glencore. Ma tutto è ora punto e a capo, con una scadenza imminente. Da allora solo rassicurazioni ed esortazioni delle istituzioni locali, Regione in testa, lo stesso governatore Ugo Cappellacci (Pdl) parla di “Sardegna in stato di allerta sociale e istituzionale”. E in tanti chiedono di evitare la fine della Vinyls di Porto Torres, proteste mediatiche seguite dallo snocciolarsi degli ammortizzatori sociali e dallo smantellamento degli impianti della chimica di base.
Il nodo energia
“L’Alcoa – dice ancora Barca – è una delle aziende più energivore d’Italia. La sua bolletta è di 150milioni l’anno e lì accanto c’è una centrale Enel. Se si chiude che si fa?”. La questione delle tariffe agevolate e delle sanzioni europee è arrivata più volte al Parlamento, l’ultima pochi giorni fa, con un’interrogazione del deputato sardo del Pdl ed ex presidente della Regione, Mauro Pili. Di recente la multinazionale americana ha ricevuto una sanzione da 300 milioni di euro, soldi che, secondo Pili, dovrebbero restare in Sardegna. Da qui l’attacco al governo Monti: “Nel bel mezzo di una lotta durissima per tentare di scongiurare la chiusura dello stabilimento di Portovesme il governo pensa ad incassare 300 milioni di euro da Alcoa, che paga e se ne va”. Dopo 16 anni e dopo aver incassato gli utili. Da qui di nuovo l’appello al governo che arriva anche del responsabile lavoro e welfare dell’Idv, Maurizio Zipponi.
Le voci dei lavoratori
Lì sotto il sole rovente della banchina c’erano gli operai e i tecnici, chi ha circa 50 anni e non saprebbe che fare e chi ne ha 30-35 e non saprebbe lo stesso che fare in una terra di aziende e miniere ormai chiuse. La media si aggira attorno ai 40, negli scorsi anni c’è stato il turn over: molti padri sono andati in pensione e al loro posto sono entrati i figli. Massimiliano Giglio è un tecnico: “Le trattative si sono rivelate una bufala. Ci vuole la volontà politica di salvare la produzione, tutto qui”. Parlano di energia, di infrastrutture, come il porto da ampliare per far attraccare navi più grandi e permettere condizioni di mercato più vantaggiose. Soprattutto da quando il polo industriale del sud ovest è in via di smantellamento e l’allumina deve arrivare via mare. L’insularità e il costo dei trasporti tornano sempre a galla come in tutte le vertenze del continente Sardegna. Michele ha 30 anni e un sogno in tasca, finora: il contratto a tempo indeterminato, firmato nel 2008, uno degli ultimi assunti. “Sono nato tra le lotte sindacali- racconta- mio padre era uno di quei minatori del Sulcis che protestava nelle gallerie sottoterra a 400 metri di profondità. E ora ci sono io, stessa storia”. Che fare? “Andar via, certo. A cercare lavoro. Ma non in Italia – precisa- all’estero, forse. Per ora, però, continuo a protestare, non può finire così”.