Invito i lettori di questo blog a firmare l’appello che chiede al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio e al ministro per i Beni Culturali di non imboccare la strada della privatizzazione della Pinacoteca di Brera.

Negli ultimi due post del blog (e in non pochi dei vostri commenti), troverete alcune delle ragioni per cui credo che la creazione della fondazione di diritto privato della ‘grande Brera’ sia un errore in sé, e un primo, micidiale passo verso la privatizzazione del patrimonio storico e artistico italiano. Ma c’è una ragione morale, e dunque più profonda e radicale, della quale finora non ho parlato e che però è stata evocata dalle reazioni milanesi.

In un’intervista al «Corriere della sera», il ministro Lorenzo Ornaghi ha smentito di voler privatizzare, ma ha contemporaneamente dichiarato che la sua missione principale, nel caso di Brera e non solo, è quella di «trovare finanziatori privati illuminati».

Ma quale progetto di nazione tradisce un’affermazione come questa? Certo non il progetto che la nostra Costituzione ha tracciato.

Con l’articolo 9 della Carta il patrimonio storico e artistico cambia funzione: dopo secoli in cui esso ha rappresentato il dominio dei sovrani degli antichi stati italiani, ora esso rappresenta visibilmente la sovranità dei cittadini. Di più: esso è uno straordinario strumento per costruire l’eguaglianza sostanziale dei cittadini e attuare l’unità nazionale. Brera appartiene a Mario Monti come al portiere del suo condominio: e a un milanese come a un pugliese. E lo garantiscono il fatto che Brera sia mantenuta con le tasse di tutti, e il fatto che sia governata da storici dell’arte assunti, per merito, con un concorso pubblico.

Conferire Brera a una fondazione vuol dire spezzare questo fascio di significati.

Quando Stefano Boeri plaude alla scelta del ministro, conformandosi alla ‘Milano ornaghiana’, lo fa sostenendo che in questo modo il museo sarà più vicino al territorio: ma questo miope cedimento culturale al leghismo non tiene conto del fatto che Brera appartiene alla comunità nazionale, anzi ne è un segno visibile. Quando gli enti locali lombardi nomineranno i vertici della ‘loro’ Brera e quelli campani faranno altrettanto con il loro Capodimonte, cosa rimarrà del progetto per cui i costituenti vollero il patrimonio ‘della nazione’ tra i principi fondamentali dell’Italia nuova?

E quando Ornaghi cerca «finanziatori illuminati» egli fa regredire il patrimonio in una condizione di dipendenza dalla ricchezza privata: una minorità da ancien régime, aggravata tuttavia da un fatto capitale. La ricchezza privata, in Italia, drena la ricchezza pubblica per colpa di un’evasione fiscale così massiccia da renderci interlocutori non credibili agli occhi degli altri stati membri dell’Unione europea. Dunque, da una parte lasciamo illecitamente la ricchezza nelle tasche private a detrimento della cassa pubblica: e poi mendichiamo l’aiuto della ricchezza privata per mantenere il patrimonio artistico di tutti. Derubati, supplichiamo i ladri di mantenere i beni di tutti.

Ma questo aiuto non sarà dato gratuitamente. Il Museo Egizio di Torino è presieduto da un membro della famiglia reale italiana, quella degli Agnelli. Il quale tra pochi giorni lascerà il posto alla moglie del presidente di Telecom Italia e Generali. Così il patrimonio che doveva servire alla costruzione dell’eguaglianza torna a veicolare e legittimare significati di profonde differenze sociali. Non è difficile immaginare Brera nelle mani della Milano già da bere, fino a ieri cupamente berlusconiana, e quindi crepuscolarmente formigoniana.

L’Egizio prima e ora Brera tornano simboli del primato della Casta: un primato fondato sul privilegio, e sull’illegalità dell’evasione fiscale più gigantesca d’Europa. Anzi, meno che simboli: orpelli da affidare ai cadetti incapaci, o alle mogli (relegate da una delle borghesie più maschiliste del mondo ad occuparsi del ‘bello inutile e innocuo’ dell’arte). I musei gestiti con la condiscendenza della beneficenza: luoghi da cui bandire il rigore della scienza e la formazione dei cittadini, e da piegare invece fino a ridursi cornici docili per i riti di autocelebrazione di una ricchezza incivile e ignorante. Il mito è, naturalmente, quello americano: ma si dimentica che i musei americani sono collezioni di milionari infine consacrate alla proprietà e al godimento pubblici, quelli italiani saranno collezioni pubbliche privatizzate contra legem. La diffidenza – direi l’odio – per lo Stato che trasuda dai commenti dei fautori dell’ingresso dei privati nel governo di Brera viene motivata con un’esigenza di efficienza: ma è palpabile l’insofferenza per tutto ciò che è ‘pubblico’.

La Fondazione di Brera non è solo uno sfregio alla Costituzione e al Codice dei Beni culturali, una lesione dei diritti dei lavoratori, una minaccia allo statuto scientifico del museo e alla libertà e al primato della conoscenza.

No, è anche un passo drammatico verso la perversione del patrimonio: da strumento pubblico (cioè di tutti) di costruzione dell’eguaglianza costituzionale a trofeo del nuovo feudalesimo castale che sta nascendo dalle ceneri di un Paese senza progetto.

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