Quello di Loiero lo chiamavano il Consiglio regionale degli inquisiti. L’attuale governatore della Calabria, Giuseppe Scopelliti, però, ha superato anche il record del suo predecessore che, adesso, dovrebbe ricevere le scuse da parte di molti. A partire proprio dal presidente Scopelliti che, neanche a metà legislatura, ha collezionato il terzo consigliere di centrodestra arrestato. Se nel 2010 la strada per il carcere di San Pietro l’ha inaugurata il pidiellino Santi Zappalà che si recava a Bovalino dal boss Giuseppe Pelle, nel 2011 è stata la volta di Franco Morelli, solito a frequentare a Milano esponenti della famiglia Lampada ritenuta il braccio finanziario della cosca Condello. Mancano quattro mesi alla fine del 2012 e la guardia di finanza stringe le manette ai polsi al repubblicano Antonio Rappoccio, già rinviato a giudizio per corruzione elettorale e oggi arrestato anche per associazione a delinquere.
Un’inchiesta che ha seguito un percorso tortuoso. Iniziata solo grazie alle numerose denunce, circa una quindicina, dell’ex presidente del Consiglio comunale di Reggio, Aurelio Chizzoniti (primo dei non eletti alle regionali del 2010), non aveva portato a nessuna misura cautelare se non a un processo a piede libero per reati che, presto, sarebbero stati prescritti. Anzi, la Procura della Repubblica, all’epoca diretta dall’attuale procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, non aveva mai contestato l’associazione a delinquere e la truffa tanto da spingere, qualche mese fa, la Procura generale di Reggio Calabria ha avocare le indagini puntando il dito contro i colleghi. In particolare, l’avvocato generale Francesco Scuderi aveva mosso contestazioni durissime contro i magistrati del Cedir ai quali aveva “ricordato” che “il pm ha l’obbligo dell’azione penale”.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di ricostruire una vicenda che farebbe rabbrividire anche il più audace Cetto Laqualunque. Nel 2010, Antonio Rappoccio e Aurelio Chizzoniti erano entrambi candidati al consiglio regionale nella lista “Insieme per la Calabria”, nella quale confluiva anche il Partito repubblicano, che appoggiava il governatore Giuseppe Scopelliti. Una campagna elettorale conclusa con Chizzoniti primo dei non eletti dietro Rappoccio che, di conseguenza, da oltre due anni occupa un seggio a Palazzo Campanella. Cosa che, secondo gli investigatori del Nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza, non sarebbe stata possibile senza i raggiri ipotizzati dalla Procura. L’unico consigliere regionale calabrese del Pri, infatti, all’epoca non stampò neppure un manifesto elettorale. Stando all’impianto accusatorio, sopperì alle mancata pubblicità servendosi di alcuni concorsi “fantasma” attraverso i quali avrebbe promesso posti di lavoro, condizionandoli al realizzarsi di progetti che avrebbero visto la luce solo se l’esponente repubblicano fosse stato eletto.
Le indagini erano state coordinate prima dal pm Carmela Squicciarini e dopo dal collega Stefano Musolino che, con il procuratore aggiunto Ottavio Sferlazza, aveva firmato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Rappoccio. Quest’ultimo avrebbe prospettato – scrivono i magistrati – “concrete possibilità di lavoro presso cooperative strumentalmente costituite che avrebbero dovuto operare in vari settori fra cui, dopo il fallimento di altri fantomatici progetti (sportello informativo, orto botanico per piante rare e palestra per riabilitazione di soggetti disabili), anche in quello fotovoltaico, creando a tal fine la cooperativa “Alicante” e successivamente un’altra denominata “Iride solare”, così inducendo a promettere il proprio sostegno elettorale, e quello di amici e congiunti, a circa 850 persone, partecipanti a un bando di concorso le cui prove scritte venivano espletate verso la fine del 2009 (prima delle elezioni quindi, ndr) e mentre quelle orali, iniziate in data 17 maggio 2010 (dopo le elezioni, ndr), venivano sospese il 16 settembre 2010”. Circa 850 persone che, come se non bastasse, avrebbero pagato 20 euro per poter partecipare alla selezione.
La centrale operativa della “cricca” sarebbe stata in via San Francesco da Paola numero 51, a Reggio Calabria, dove si trovava l’ex segreteria dell’esponente politico ma anche la sede delle cooperative finite al centro dell’inchiesta. Prima l’Alicante, poi la Iride Solare e, infine, la Sud Energia. Buona parte dei soggetti che ruotavano attorno a queste società, oggi lavorano in consiglio regionale nella struttura del consigliere e con lui sono indagati. È il caso di Maria Catanzariti che ha prestato servizio prima alla “Iride solare” e poi alla “Sud Energia”. Ma anche di Loredana Tolla, la telefonista che avrebbe contattato i partecipanti ai concorsi fantasma e collega di Elisa Campolo che era stata candidata nell’aprile 2011 al Consiglio comunale di Reggio, rastrellando 439 e piazzandosi al quarto posto su trentadue aspiranti consiglieri, con una differenza di 210 voti rispetto al quinto. Anche qui, l’avvocato generale Scuderi ha visto del marcio: “Non v’è dubbio – scrive il magistrato – che trattasi di una affermazione per una giovane di appena 31 anni, appena scesa nell’agone politico e praticamente sconosciuta alla cittadinanza reggina. Peraltro, come è accaduto con le collaboratrici più vicine al Rappoccio, anch’essa è stata premiata con un posto nella struttura che in seno al consiglio regionale fa capo al gruppo del Pri”.
Una macchina che ha funzionato alla perfezione. Ognuno aveva il suo compito per realizzare l’obiettivo: l’elezione del “capo”. Alle regionali del 2010, infatti, Rappoccio fu eletto con 3814 preferenze violando, secondo la Procura generale, addirittura l’articolo 48 della Costituzione italiana secondo il quale “il voto è personale ed eguale, libero e segreto». Per gli inquirenti “il voto di quei 3814 elettori non è stato né libero né, tantomeno, segreto. È stato il frutto di un pactum sceleris che ha messo in pericolo l’ordine pubblico e lo minaccia”. Già perché, Rappoccio “non ha mai fatto mistero di aspirare ad un posto nel Parlamento nazionale” ha rivelato alla guardia di finanza Pasquale Tommasini, un vecchio componente della “cricca” che oggi collabora con gli investigatori ai quali ha consegnato le famose schede che i partecipanti alle selezioni “farlocche” dovevano compilare con i nomi dei soggetti per i quali garantivano il voto. E ancora: “Per come mi hanno riferito, Rappoccio aveva dato ordine di distruggere tutta la documentazione che in un modo o nell’altro poteva interessarlo”.
Quelle carte scottavano. Il consigliere del Pri lo sapeva bene e non solo perché rappresentavano la prova dei suoi raggiri. Sulla vicenda, spunta l’ombra della ‘ndrangheta e della cosca Lo Giudice. Nelle schede sequestrate dalle fiamme gialle, infatti, compariva anche il nome del pentito Nino Lo Giudice, di suo fratello Luciano e di numerosi loro parenti. Sospetti che si fecero più concreti dopo il 7 aprile 2010 quando il collaboratore di giustizia ha dichiarato al procuratore Pignatone che “la sua famiglia avrebbe sostenuto Rappoccio alle regionali”. Un aiuto elettorale in nome dell’amicizia con uno zio del politico, suo vicino di casa. Quel verbale di interrogatorio di Lo Giudice non era mai confluito nel fascicolo del processo a carico del consigliere regionale, né tantomeno nell’inchiesta bis per la quale i pm avevano emesso 17 avvisi di garanzia contro la “cricca” dei concorsi fantasma. “Se non fosse intervenuto l’esposto dell’avvocato Chizzoniti – scrive l’avvocato generale dello Stato Francesco Scuderi –, il Rappoccio avrebbe potuto continuare, indisturbato, a delinquere, con buona pace dell’articolo 112 della Costituzione secondo cui il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”.
Ma chi era Rappoccio prima di candidarsi nel 2007 al Consiglio comunale e nel 2010 alla massima assise calabrese? Un operaio forestale “prestato” alla politica che, con i suoi presunti complici, avrebbe messo in piedi un’associazione a delinquere “che attinge altissimi livelli di pericolosità in quanto mina le fondamenta di un istituto essenziale per la vita di una moderna comunità, quale è quello della gestione della cosa pubblica da parte di soggetti liberamente eletti dai cittadini”. “Se tu avessi lavorato nella forestale dove ho lavorato io non campavi neanche quindici minuti” amava dire il consigliere regionale del partito di Francesco Nucara.
L’istruttore direttivo della polizia municipale Aldo Claudio Rotilio, invece, lavora a Palazzo San Giorgio, sede del Comune di Reggio Calabria. E nel 2009 quella era una postazione “privilegiata” per capire cosa succedeva all’interno del gruppo consiliare del Pri. Un giorno ha assistito a una lite tra il consigliere Paolo Ferrara (sempre del Pri) e Antonio Rappoccio il quale, “ad un certo punto della discussione, si alzò dalla sedia per scagliarsi contro” il collega che pretendeva “addirittura” le chiavi della sede del suo partito diventata quasi un luogo di pellegrinaggio di cittadini che chiedevano notizie sui concorsi “fantasma”. “Voglio rappresentare che il signor Rappoccio si presentava sia a me che a tutti gli altri frequentatori del gruppo come dirigente regionale e funzionario Afor – aveva riferito il dipendente del Comune alla guardia di finanza –. A garanzia della sua indubbia moralità, ripetutamente, rammentava a tutti che aveva un fratello magistrato e che questa già di per sé doveva essere una garanzia di trasparenza e legalità”.