Giulia ha trascorso 5 anni nelle ong internazionali, dal Niger ad Haiti. Poi ha deciso di rientrare: "Vedevo colleghi che si ritrovavano a 40 anni soli e lontani". Riportare 'a casa' le sue competenze, però, è difficile: "Ho gestito situazioni difficili in zone di guerra, eppure spesso nel Belpaese il cooperante viene visto come un fricchettone"
“Quando il Libano è stato bombardato nel 2006 ero lì, a seguire un progetto in un paesino vicino a Israele”. Giulia parla di sfuggita dell’esperienza libanese, mentre snocciola dati e luoghi della sua vita di cooperante. “Da un giorno all’altro mi sono trovata una pioggia di bombe sulla testa, nel giro di 36 ore tutto è cambiato ed è stato davvero difficile uscire dal paese. Certo è stata un’esperienza formativa, diciamo che mi sono resa conto dei rischi del mestiere”. Ci sono voluti altri 5 anni perché Giulia smettesse di viaggiare con la cooperazione internazionale e tornasse in Italia. Negli ultimi anni è tornata in Libano con i programmi di post emergenza ed è stata in missione in Congo, in Niger e ad Haiti, con ruoli di coordinamento e di educazione sanitaria.
“Amo i viaggi e la politica internazionale, per cui è sempre stato soddisfacente partire. Però mi spaventava vedere alcuni colleghi che per quanto realizzati professionalmente si ritrovavano a 40 anni soli e lontani. Avevo bisogno di stabilità, di recuperare i rapporti per me preziosi, di avere una casa dove appoggiare le mie cose”. Tornata a Milano, Giulia ha capito che restare nel mondo della cooperazione lavorando in Italia e non sul campo è impresa ardua. “Con una figura generalista come la mia, di coordinamento strategico-politico, è praticamente impossibile riciclarsi”. Ha inizialmente ripiegato in quello che lei chiamava ‘il piano b’, ossia un lavoro in una multinazionale come organizzatrice di congressi: “Mi ha aiutato il fatto di sapere le lingue, ma era un lavoro dequalificante, non potevo minimamente usare le mie competenze”. Dopo pochi, difficili mesi, è stato il momento del ritorno alle ong, segnato però dalla ridefinizione del proprio ruolo: con i tagli che colpiscono la cooperazione, alle associazioni non resta che rifugiarsi nel fund-raising. “Spesso cercano esclusivamente figure esperte in marketing, comunicazione e raccolta fondi. Personale proveniente dalle aziende, piuttosto che figure che hanno operato sul campo. Si parla tanto di flessibilità, ma il mercato del lavoro italiano è rigidissimo. Figurati quando sei stato fuori da tutto per anni, com’è difficile inserirsi”.
All’estero, racconta Giulia, non è sempre così: “In Belgio, per esempio, le ong hanno politiche di interscambio di risorse umane, sanno come reinserire nelle loro strutture personale che è stato sul campo per anni. Non puoi pretendere che una donna di 40 anni con figli vada in Somalia”. Così, anche lei avrebbe voluto essere re-impiegata con facilità nel mondo del lavoro. Invece, cooperazione e Italia non vanno d’accordo, assicura un po’ amareggiata: “Dopo tanti anni all’estero, gestendo situazioni molto difficili, magari in zone di guerra, avendo responsabilità di soldi e personale, speravo che il mio ruolo potesse essere un po’ preso in considerazione. Forse è anche questione di mentalità, spesso il cooperante viene visto come un fricchettone che va a vivere lontano, magari sotto una palma in spiaggia. Invece sarebbe bello poter usare le esperienze accumulate all’estero anche qui in Italia”. Per il momento, pur di restare, Giulia ha deciso di lasciare la cooperazione: a breve inizierà un nuovo lavoro, finalmente con un ruolo di coordinamento, per una onlus che segue progetti sociali. “Vorrei continuare a fare il mio lavoro, ma non voglio dover firmare un addio all’Italia a vita. A me piace stare in Italia, e ci voglio rimanere. Speriamo sia la volta buona. Comunque non me ne vado, e non mi arrendo”.
(foto di Carlotta Berutto)