Quattro donne. Quattro minatrici. Quattro volti, sotto ai caschi gialli, pronti alla lotta e all’occupazione della miniera di carbone di Nuraxi Figus. Silvia, Giuliana, Valeria e Valentina; la quinta moschettiera, Alessandra, è a casa per maternità, ma anche il suo cuore è a 400 metri sotto il livello del mare. Con le compagne e i ben più numerosi compagni, che si danno il cambio, trenta alla volta, in turni di otto ore, per raggiungere l’obiettivo di far arrivare la loro voce a Roma. E per farsi sentire più forte hanno già fatto presente di avere là sotto nelle gallerie 350 chili di esplosivo, minacciando di “essere pronti a tutto”. Anche la parte rosa di questa protesta è nera come lo è il carbone.
Proprio con l’esplosivo ha avuto a che fare Silvia Marongiu: nel 1986, quando ha iniziato a lavorare in miniera, il suo lavoro consisteva nel trasportare i candelotti sottoterra dalla superficie. Oggi Silvia ha 48 anni . “Come parecchi di noi la mia storia tra quei cunicoli ha origini antiche. Mio nonno Adolfo lavorava già nella Carbosulcis, che all’epoca si chiamava Carbosarda”. E anche suo padre, Gavino, finì in Carbosarda. Non come il nonno, che guidava i trenini nei tunnel, oggi sostituiti dai pick up. “Papà gestiva il patrimonio immobiliare costruito a Carbonia in epoca fascista per i lavoratori. Con la crisi della miniera, tra il 1957 e il ’61, decise di andare via. Ci siamo trasferiti in Francia, tra Grenoble e Lione. Poi a Milano, dove sono nata io. Siamo rimasti in Lombardia fino ai mie sette anni, per poi ritornare nella casa che non avevo ancora visto, a Carbonia. E indovinate dove trovò impiego mio padre? All’Alcoa, l’altra azienda oggi sull’orlo del tracollo. Papà passò dal carbone all’alluminio . Ma tutta la mia storia è una cronaca di operaismo e immigrazione. Perché la mamma, Dora, era figlia di un siciliano intraprendente, Vincenzo, che come molti cercò fortuna al nord. Prima a Torino, poi in Francia. Si affidò agli scafisti dell’epoca. Persone senza scrupoli che accompagnavano al confine e poi ti lasciavano al tuo destino. Finì a lavorare nella stessa fabbrica dove poi arrivò mio papà, che così conobbe la mamma”. Silvia ha una figlia di 7 anni, un mutuo di 750 euro al mese e uno stipendio di 1500. Finché durerà la Carbosulcis almeno. “Spero di poterci lavorare ancora altri dieci anni. Perché al netto dell’ultima riforma delle pensioni è l’obiettivo per una paga neppure dignitosa”.
VALENTINA Zurru, 45 anni, ne ha passati già 26 su e giù, dal sole alle tenebre. Il suo lavoro è non far crollare la terra sui minatori, per semplificare dice di “mettere i bulloni alle gallerie”. Ama il suo mestiere, è battagliera, pronta “a sfilare a Roma davanti ai palazzi del potere”, perché per tutta questa polvere e fango ha anche sacrificato la sua vita privata. “Non ho figli e in gran parte il mestiere che faccio ha pesato sulla scelta”. Giuliana Porcu, 45 anni, è una minatrice dal 1987. È un quadro aziendale, responsabile del servizio di prevenzione e protezione, in pratica gira le gallerie per svolgere l’analisi chimica e assicurarsi dell’adeguata presenza di ossigeno. “Sì, ma entrai come operaia, fummo assunte in sei all’epoca, tutte operaie, dopo aver conseguito il diploma di perito minerario a Iglesias”. Ha anche un vanto Giuliana: “La mia nonna. Era la cernitrice Pasqualina. Lavorava il carbone una volta portato in superficie insomma”. Il padre Giovanni? Un altro minatore, ma metallifero. “Mio figlio ha 13 anni e frequenta il primo liceo. Se un giorno fosse assunto in miniera non vedo perché dovrei esserne scontenta. Mio papà ha 90 anni, io nonostante tutto questo tempo là sotto sono in buona salute, quindi, in caso, ben venga. Soprattutto se non chiuderanno la Carbosulcis”.
VALERIA Santacroce è la meno “anziana” del gruppo. Assunta dall’azienda della Regione Sardegna nel 2007. “Sono ingegnere elettrico. Ho passato parecchi anni in Alcoa, con contratti a tempo determinato. Poi l’occasione Carbosulcis, prima come capo cantiere di una ditta esterna”. Oggi è la responsabile della sicurezza: “Non faccio altro che certificare che tutto rispetti gli standard, con continui sopralluoghi. “Sinceramente non avrei proprio immaginato che un giorno sarei finita anche io in miniera”. Già, perché nonno Bruno era operaio a Seruci, pozzi a pochi metri da quelli di Nuraxi Figus, sempre della Carbosulcis. “Lui faceva il lavoro più duro, l’estrazione del carbone. In un’epoca in cui le condizioni professionali erano ben peggiori. Ritornava a casa spesso letteralmente nero. Se lo è portato via un tumore nel 1991. E aveva la silicosi, malattia provocata dalla continua esposizione a polveri, al cento per cento. Mio papà Claudio ricorda bene quei giorni. Lui, invece, è un pensionato Alcoa, ci ho parlato prima. Mi ha detto che gli sembra il 1974, già si parlava di crisi. Di chiudere tutto”. Di annientare uomini, e donne, del Sulcis.
da Il Fatto Quotidiano del 29 agosto 2012