Le città sono come persone: hanno un loro carattere, ci piacciono, ci sono simpatiche o ci innervosiscono. Tanto che si legge perfino sulle magliette “I love New York”.

Nel dire così – amo Berlino, Milano mi mette in ansia, e simili – facciamo tutto da soli, attribuendo una identità precisa a quell’insieme complesso che sono le città e svariati aggettivi all’idea che ci facciamo, appunto, di ogni città grande o piccola, ma non ce ne accorgiamo nemmeno, dato che di solito siamo identificati e affezionati alle nostre attribuzioni. Ne abbiamo bisogno per vedere un senso nel mondo, per oggettivare e rendere comunicabile il nostro sentire: sentiamo una qualche emozione anche per città in cui non siamo mai stati, che conosciamo per sentito dire.

Molte città dunque, per me, sono amiche, come mi sono amici molti fra i libri che mi tengono compagnia parlandomi dallo scaffale. Ogni libro è il risultato di anni di concentrazione, della volontà di raccontarci qualcosa: è il concentrato di menti di esseri umani in contatto con me, se solo rivolgo loro l’attenzione. Ma sto divagando davvero troppo. Tra tutti i libri che mi tengono compagnia e tutte le città che conosco oggi vi parlo di Kassel.

Quando ci arrivai per la prima volta, tanti anni fa, restai disorientata, e non in senso metaforico. Abituata come sono alle città storiche italiane, uscendo dalla stazione ferroviaria, provai un senso di sconforto. Gravemente danneggiato dalle bombe della seconda guerra mondiale, il centro è un intrico di strade a scorrimento veloce ed edifici moderni, troppo distanziati per dare l’idea di un ambiente urbano – almeno quello che ero abitutata a definire tale fino a quel momento. Mi ricordo che mi fermai interdetta, ferita da tanta scomposta mancanza di riguardo edificata.

Kassel è stata salvata dalla Documenta, fondata nel 1955 invitando artisti di tutto il mondo ad esporre in una città in cui le macerie e i buchi lasciati dalla guerra erano ancora ben visibili – e la Documenta è ora una fra le più importanti mostre di arte contemporanea, un avvenimento internazionale che si tiene all’incirca ogni cinque anni.

Recentemente sono tornata a Kassel per visitare la Documenta. Fino al 16 settembre, la città ne ospita la tredicesima edizione.

In realtà non è corretto dire che Kassel “ospita” la Documenta: è l’intera città che si risveglia, si mette in movimento e vive diversamente, giorno e notte, durante la Documenta. Molto più che a Venezia durante la Biennale, se si viene a Kassel in questo periodo, si viene coinvolti: in tutta la città numerose sedi ospitano opere e performance, nel parco centrale (la Karlsaue) sono centinaia i padiglioni costruiti ad hoc – e molti sono così belli che mi dispiace pensare che verrano smontati, alla fine. L’impressione che mi è rimasta è un senso di allegra scoperta: numerosi artisti contemporanei ci coinvolgono in situazioni che sono fonte di esperienze condensate, se accettiamo la sfida.

Tre esempi: una installazione sonora nel bosco, di Janet Cardif & George Bures Miller, mi siedo su di un tronco d’albero e ascolto. Un’esperienza sognante, un teatro uditivo, fatto di suoni, canti, rumori, un racconto che si dispiega acusticamente intorno a me, ci resto almeno un’ora, mi dispiace andarmene.

Una stanza completamente buia nella Hugenottenhaus: entro e “sento” che ci sono persone che si muovono e cantano, intorno a me, ma non vedo assolutamente nulla – finché l’occhio si abitua all’oscurità e improvvisamente vedo i ballerini! Una gioia! Esco e rientro per rifare l’esperienza, ma l’occhio ha bisogno di “reimpostarsi”, se esco ed entro troppo in fretta ci vedo benissimo, anche al buio, e l’esperienza non si ripete. Per cui vado in giro per la città e torno un paio di volte, per rivivere l’emozione. La seconda volta entro, buio completo; ora che me lo aspetto, mi mette in ansia continuare a vedere solo buio per parecchi minuti; faccio esperienza della mia inquietudine e della mia impazienza, mi pare che non ci vedrò mai, questa volta. Poi invece, il sollievo. Mi accorgo che è proprio vero: vivo nel prodotto dell’interscambio tra quel che arriva dall’esterno e quel che ne fanno i miei filtri, percettivi e interpretativi. L’autore è Tino Sehgal: grazie Tino!

Stuart Ringholt, di Melbourne, presenta il video di un suo workshop sulla rabbia, che tiene secondo un calenario preciso – i suoi seminari assomigliano ai miei, e ora mi piace pensare che non siano attività didattiche, ma performances artistiche, se solo ho il coraggio di vederle così. Un’arte che ci ispira a sentire, a condividere esperienze in modo più diretto che nel „capire“ intellettuale. E Kassel? Un’amica libera, strana, felice, che si sveglia ogni tanto, e poi per qualche anno si riposa, tra una Documenta e l’altra.      

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