Per l'intera giornata di ieri si è fermata la produzione negli stabilimenti di Collecchio dove verranno cancellati 30 posti di lavoro. Tre le succursali di Pavia e Genova altri 90 andranno in mobilità. I sindacati: "L'azienda ci ha chiesto di accettare le sue decisioni senza opporci, ricordandoci che se vogliono possono delocalizzare la produzione con poco sforzo"
“Guardate i mercati di riferimento di Parmalat e poi quelli di Lactalis: gli uni completano gli altri. L’unica sovrapposizione è in Italia”. Bisogna partire dalle parole di Luca Ferrari, segretario parmense della Flai Cgil, per capire quello che sta succedendo all’ex azienda di Callisto Tanzi. Acquistata un anno fa dal gruppo Lactalis, l’azienda di Collecchio è stata usata come pista di decollo per portare i nuovi padroni francesi in Australia, Sud Africa e Est Europa. Tutti mercati dove Parmalat aveva da tempo messo radici e dove invece Lactalis faticava.
A non interessare più ai nuovi proprietari, la famiglia Besnier, è invece l’Italia. A dimostrarlo ci sono le lettere di mobilità, spedite il 26 luglio, che annunciano la chiusura degli storici stabilimenti di Pavia e Genova. In tutto 120 licenziamenti entro ottobre compresi i 30 nel quartier generale di Collecchio. Non è finita. “Entro dicembre – spiega Ferrari – la proprietà ci ha comunicato un ulteriore piano di razionalizzazione per quanto riguarda quadri e impiegati. Noi preferiamo chiamare le cose col loro vero nome: licenziamenti”.
Il motivo della razionalizzazione, per i sindacati, è chiarissimo. Con l’arrivo dei francesi testa e cuore del gruppo si sono spostati altrove, e Collecchio e gli altri stabilimenti italiani sono diventati siti produttivi come tanti altri. Quindi sacrificabile. “Stanno passando sulle nostre teste in nome del bilancio e di politiche industriali che puntano a produrre il latte biologico in Belgio e lo yogur Kir in Francia – spiega Ferrari – Non possiamo che opporci e scioperare, di questo passo c’è il rischio che Parmalat sparisca come realtà industriale e rimanga solo il marchio”.
Ferrari racconta dei molti tavoli di trattativa dei mesi scorsi, e di un primo sciopero di due ore che non ha smosso per nulla Lactalis. “Ci hanno chiesto di accettare le loro decisioni senza opporci, ricordandoci che se volessero potrebbero sempre delocalizzare tutta la produzione con poco sforzo”. E’ in questo scenario che si è inserito lo sciopero di quattro ore svoltosi ieri contro i licenziamenti e contro la nuova politica industriale annunciata della proprietà e imposta senza troppe mediazioni. Per tutta la giornata del 28 agosto, davanti alla sede dell’azienda, si è stato installato un piccolo presidio e la produzione nelle linee dello stabilimento di Collecchio si è fermata completamente. “Ma di scioperi ne seguiranno molti altri se Lactalis non si deciderà a trattare”, spiega Ferrari prima di ricordare come la forza lavoro Parmalat sia molto giovane e non prepensionabile.
A confermare le preoccupazioni dei sindacati anche la recente acquisizione di Lactalis Usa. Una partita di giro che ha visto Parmalat, da poco comprata dal gruppo Lactalis, prendere il controllo di Lactalis American Group, anche lei sotto controllo della galassia francese che fa capo alla famiglia Besnier. Il motivo? Spostare il tesoretto di un miliardo di euro e mezzo lasciato dalla precedente gestione commissariale di Enrico Bondi. In tutto oltre 900 milioni di dollari si sono così spostati da Collecchio alle tasche della famiglia Besnier in una criticata operazione finanziaria infragruppo. “Per noi è stata la conferma di tutti i nostri timori – conclude Ferarri – Al posto di usare quei soldi per rilanciare la produzione in Italia, Lactalis ha deciso di fare bottino. A Collecchio non ci sono più investimenti degni di questo nome, e la struttura produttiva diventa sempre più piccola. Dire che siamo preoccupati è dire poco”.