La legge anticorruzione non può più attendere, benché formulata in modo inadeguato e per qualche aspetto anche controproducente, e il governo ha fatto, almeno per 24 ore, la voce grossa annunciando per bocca del ministro Patroni Griffi la concreta possibilità di porre la fiducia.
Immediatamente, e si tratta di una non notizia, è tornata alla carica la triade Gasparri-Cicchitto-Berselli per ribadire che, senza sostanziali modifiche, in primis l’abolizione della norma incriminatrice sulla corruzione tra privati e cioè l’unico elemento innovativo e qualificante del ddl, il Pdl non lo voterà.
Ma la posta non è solo ostacolare con ogni mezzo l’inviso provvedimento sulla corruzione; l’obiettivo esplicitamente dichiarato è imporre come conditio sine qua non il cosiddetto trittico: anticorruzione snaturata insieme alla responsabilità diretta dei magistrati e alla stretta defintitiva e tombale sulle intercettazioni.
Gasparri si è rivolto con piglio autoritario alla Severino per inchiodarla al diktat del Pdl: “Il ministro sa benissimo che noi da tempo parliamo di un trittico – corruzione, intercettazioni, responsabilità civile dei giudici – che o viene ricomposto con una mediazione tra il ministro e i capigruppo, o viene affidato alla dialettica parlamentare”.
L’urgenza impellente e improcrastinabile di mettere mano alle intercettazioni era stata apertamente invocata da Giorgio Napolitano nella inusuale e veemente reazione, poco consona ad una parte super partes, alla notizia delle telefonate intercorse tra la presidenza della Repubblica e Nicola Mancino, teste inquisito per false dichiarazioni. E si trattava solo dell’anticipazione di contenuti esplicitati nel decreto con cui ha sollevato il conflitto di attribuzione.
Non solo come ha perfettamente focalizzato Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Consulta, Napolitano è diventato “perno di un’operazione di discredito, isolamento morale, e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la trattativa tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia”, ma ha anche avallato e rilanciato in modo più esplicito che implicito il diktat di Berlusconi su giustizia ed intercettazioni.
Zagrebelsky, nell’invitare il presidente della Repubblica a ritirare il decreto senza precedenti con cui ha sollevato il conflitto, concede a Napolitano il dubbio sulla consapevolezza riguardo al risultato di delegittimazione devastante dell’operato della magistratura impegnata nelle inchieste più insidiose.
Ma se è difficile pensare che un uomo da sempre nelle istituzioni, oltre che un politico a vita non si renda conto degli effetti di una simile iniziativa sui magistrati inquirenti e sul procedimento in corso, è ancora più impensabile immaginare “l’ inconsapevolezza presidenziale” riguardo le intercettazioni.
L’uscita del Colle e il quasi contestuale conflitto davanti alla Consulta hanno rilanciato non solo una campagna di denigrazione senza precedenti contro i magistrati impegnati sul fronte mafia-politica fino al punto inimmaginabile di arrivare alla disgustosa vulgata che tutti, in un modo o nell’altro, hanno “trattato” con la mafia e dunque parlare di “trattativa” e imbastirci un’inchiesta è un ricatto nei confronti delle istituzioni. Tanto che il sempre più intelligente Giuliano Ferrara, a Bersaglio Mobile di Mentana sulla trattativa, è arrivato a sostenere che anche Falcone “ha trattato con la mafia” perché ha ascoltato Tommaso Buscetta e l’ha ritenuto, come era, un collaboratore di giustizia affidabile e fondamentale per scardinare Cosa Nostra, impresa possibile senza l’offensiva della politica collusa.
Berlusconi, a caldo, aveva immediatamente fatto proprio il richiamo del Quirinale sul giro di vite alle intercettazioni e a distanza di qualche settimana i suoi triumviri parlamentari ricattano senza nessun imbarazzo il governo, costretto dall’Europa a stringere i tempi sulla corruzione. O si realizza il sogno del bavaglio all’informazione e delle mani legate ai magistrati sulle intercettazioni, oppure la Severino può mettere il ddl anticorruzione nell’album dei ricordi per i nipotini. E sulla reponsabilità civile dei magistrati l’obiettivo è ripartire dall’emendamento Pini e cioè dalla responsabilità diretta che mina alla radice l’autonomia della magistratura.
Il bello di questa situazione, più delirante che paradossale, è che mentre il Pdl, obiettivamente rinfrancato da Napolitano, tiene in ostaggio il governo ed è prontissimo a farlo cadere sulla giustizia qualora imponesse una vera legge anticorruzione, ogni giorno vengono additati come aggressori del Colle e sabotatori dei tecnici quelli che non ci stanno: Il Fatto Quotidiano, Grillo, Di Pietro, la stragrande maggioranza del popolo del web.