Certo, le nostre condizioni di vita peggiorano, visto che troppi nodi pregressi stanno giungendo al pettine. Anche perché – sottotitola il nostro giornale – “l’effetto delle riforme non si vede”. Di grazia, quali riforme?
Certo non sono tali le scazzottate di Fornero con le residue rappresentanze dei lavoratori o la messa in sicurezza del sistema bancario nazionale; magari il tempo regalato ai partiti “azionisti di riferimento del governo” perché trovino la quadra di una legge elettorale che li metta al riparo dalla crescente indignazione popolare. D’altro canto ormai sappiamo tutti che la compagine governativa ha un solo mandato imperativo: porre fine alle mattane dimostrandosi malleabile nel praticare la cosmesi restaurativa in ambito nazionale e rispettosa delle pressanti richieste che provengono dai signori internazionali del danaro.
Certo, in tale compagine ci sono personaggi che aspirerebbero a perseguire davvero una politica di cambiamento: ad esempio Fabrizio Barca, se l’incarico in materia di sviluppo fosse attribuito a lui (invece di essere confinato in un ambito nebuloso quale “la coesione territoriale”); taluno indica anche il ministro Profumo, ma solo in materia di ricerca scientifica. Comunque la logica governativa imperante è quella di dare silenziosamente (e sobriamente) applicazione anche dalle nostre parti al “progetto mostriciattolo” vigente dopo il 2008, impostosi come ricetta generale alla moda, di far pagare i costi della crisi alle fasce più deboli della popolazione.
Il politologo Colin Crouch lo ha definito paradossalmente “keynesismo privatizzato”: ancora una volta l’uscita dall’impasse economica viene vista nel fare debiti. Soltanto che se al tempo della Grande Depressione si traduceva – secondo l’insegnamento di John Maynard Keynes – in una grande politica di investimenti pubblici, ora devono essere le famiglie a indebitarsi e impoverirsi per assicurare la tenuta del sistema. Visto che il pensiero dominante considera l’irresponsabilità finanziaria un bene collettivo!
Riformismo questo? Suvvia… una truffa generalizzata a danno dei più deboli.
Sempre che per riforme si intendano profonde trasformazioni che aprono la società creando nuove chances di giustizia e libertà. Il New Deal lo era, così pure lo erano le politiche di Welfare non meno della costruzione europea all’insegna dell’economia sociale di mercato. Non sono tali i regolamenti di conti, con relativo dirottamento in misura ciclopica delle risorse materiali e politiche verso la fascia privilegiata della società. Il tutto avvolto nelle fumisterie del riformismo.
Anche in Italia.
Del resto chi scrive, nelle sue quasi sette decadi di vita, nel suo Paese di riformismo preso sul serio ne ha visto pochino. Sperammo nel primo Centro-Sinistra, ma bastò un tintinnio di sciabole (il generale Di Lorenzo e il presidente Segni) perché qualcuno se la facesse sotto. Avrebbe potuto essere tale il regionalismo, se gli enti istituiti nel 1970 non fossero diventati immediatamente cronicari per politici trombati. Anche lo Statuto dei Lavoratori, oggi indicato come fonte di tutti i nostri mali dalle frotte dei liberisti/revanscisti, più che una riforma fu la registrazione dei temporanei rapporti di forza determinati dagli ultimi bagliori delle lotte del lavoro.
Lapalisse ci direbbe – a questo punto – che per fare le riforme ci vogliono i riformisti, cioè gente capace di pensare in termini innovativi e con il coraggio di rischiare. Li avete mai visti dalle nostre parti tipi con queste caratteristiche? Craxi, che faceva il Ghino di Tacco per più vantaggiose spartizioni? La Balena Bianca nel suo complesso, con i suoi sagrestani interessati solo a tenere a bada il popolo? Ma anche i presunti eroi sconfitti: l’onesto Berlinguer, che impostava strategie difensive sconfittiste proprio mentre la Sinistra vinceva; l’azionista padre della Patria La Malfa, che espelleva i probiviri del PRI, al grido di “Torquemada da strapazzo”, perché avevano espulso il proconsole Aristide Gonnella. I parolai inconcludenti alla Nenni e compagni…
Per cui fa ridere il neodirettore dell’autorevole rivista il Mulino – Michele Salvati (ma che senso ha riciclare un blairiano da Terza Via nel 2012?) – quando spiega che i nostri riformisti dovrebbero essere “responsabili”. Ma quali riformisti. Quelli che si guardano bene dal toccare gli intoccabili? Sicché – parafrasando la celebre battuta del film di De Palma (appunto, “Gli intoccabili”) – alla prova storica dei fatti il riformismo nostrano “è solo chiacchiere e diversivo”.