Nel 2011 i trasferimenti legalmente autorizzati di armi cosiddette “leggere”, di parti di ricambio e di munizioni hanno raggiunto un totale di 8,5 miliardi di dollari. Appena cinque anni prima, nel 2006, erano 4 miliardi. Il dato è contenuto nel rapporto annuale della Small Arms Survey, un progetto di ricerca e monitoraggio sul mercato mondiale delle “piccole armi” lanciato dal Graduate Institute of International and development studies di Ginevra, in Svizzera. Il rapporto è stato presentato due giorni fa, con una conferenza stampa alla sede dell’Onu a New York.

Eric Bergman, direttore esecutivo del progetto di ricerca, ha spiegato che una parte di questo aumento dipende dal fatto che un numero sempre maggiore di governi finalmente fornisce dati anche sulle operazioni di trasferimento di armi “leggere” – che poi leggere non sono perché causano la maggior parte delle vittime nelle guerre, specialmente tra i civili. Un’altra consistente parte dell’incremento della vendita di armi, però, riguarda i conflitti mediorentali, come l’Iraq, e la crescita della vendita di armi negli Stati Uniti.

Ci sono voluti quattro anni di lavoro, raccolta di dati, esame di documenti per arrivare alla compilazione del rapporto, nel quale i ricercatori hanno anche valutato la trasparenza dei governi di 52 paesi esportatori di armi: al primo posto, la Svizzera, seguita da Slovacchia, Svezia, Norvegia e Stati Uniti, all’ultimo, invece, la Corea del Nord e l’Iran, con il minimo grado di trasparenza per quanto riguarda le esportazioni belliche. In fondo alla classifica ci sono anche Russia e Repubblica popolare cinese, paesi molto restii a fornire dati ufficiali sulla propria industria militare.

Per quanto riguarda i paesi esportatori, in cifre, gli Stati Uniti – ai dati del 2009, gli ultimi disponibili per questo settore – sono in cima alla lista con oltre 100 milioni di dollari di esportazione. Seguono a breve distanza Francia e Giappone, che hanno anche superato la “soglia” dei cento milioni, mentre molto vicini a questa cifra sono anche Germania, Brasile e Italia.

Oltre ai dati generali, il rapporto si concentra su alcuni paesi, temi e contesti, a partire dalla violenza legata alla presenza dei cartelli della droga in America centrale, fino alla questione della pirateria nel Corno d’Africa e alla situazione in Iraq, Afghanistan e Somalia, non solo per l’impatto sui civili di questi paesi, ma anche per il loro ruolo di “hub” del commercio mondiale illecito di armi leggere. Secondo i dati raccolti dai ricercatori elvetici, sembra che alcuni canali di rifornimento per il contrabbando di armi (il cui valore, molto approssimativo, è stimato in un paio di miliardi di dollari) si siano in qualche modo “asciugati”. Tra gli arsenali a disposizione degli “attori non statali” – movimenti di guerriglia, gruppi terroristici e simili – non ci sono armi moderne, ma soprattutto residui degli arsenali sovietici o vecchie armi cinesi.

Se da un lato questo dato può risultare confortante, almeno per i governi, dall’altro dimostra come l’aumento della trasparenza e la collaborazione internazionale possono portare a buoni risultati almeno sul terreno della lotta al contrabbando. Di converso, non è difficile capire perché nella recente conferenza Onu che avrebbe dovuto portare all’elaborazione del primo trattato internazionale sul commercio internazionale di armi leggere, siano stati proprio i paesi esportatori (Usa e Cina innanzitutto, ma non solo) a mettersi di traverso e a mandare in stallo le trattative.

E se non è ancora del tutto chiaro il circuito che consente alle armi vendute sul mercato legale di finire in quello illegale, il rapporto conclude che ricade proprio sul gruppo di paesi in cima alla lista degli esportatori di armi leggere la responsabilità di trovare un accordo internazionale, che consenta non solo di ridurre i flussi di vendita e acquisto, ma anche di “tracciare” le partite di armi in modo da illuminare le moltissime zone d’ombra che ancora si addensano su questo settore dell’economia bellica globale.

di Joseph Zarlingo

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