Il direttivo della Banca centrale europea il 6 settembre potrebbe decidere a maggioranza se avallare o meno l'acquisto di titoli di Stato dei Paesi in difficoltà. I contrari al tavolo dei 22 potrebbero essere i Paesi del nord Europa con il presidente della Bundesbank Jens Weidmann
C’è un posto vuoto al grande tavolo che raccoglie i 23 membri del consiglio direttivo Bce, dove giovedì prossimo si potrebbero prendere decisioni cruciali per il futuro dell’Europa. Ed è un posto pesante, in una situazione in cui ogni voto si conta – e soprattutto si pesa. E’ il buco lasciato nel Comitato esecutivo dallo spagnolo Manuel Gonzàlez-Pàramo, che ha concluso il suo mandato il 31 maggio scorso. Tutti sono d’accordo che a partire da ottobre in quella delicata posizione – ovvero quella degli uomini più vicini, anche operativamente, al presidente Mario Draghi – andrà l’attuale governatore della Banque centrale du Luxembourg, Yves Mersch. Ma fino ad ottobre quel posto resta vuoto.
Scende così a 22 il direttorio della Banca centrale europea che dovrà valutare se – o meglio come – far partire il nuovo programma di acquisti di titoli di Stato. Il dibattito suscitato oggi dall’intervento di Draghi a Bruxelles, teoricamente a porte chiuse ma subito rilanciato a livello globale, troverà sicuramente eco nel confronto in calendario per dopodomani, anche se – rispetto ai parlamentari europei – i membri del Consiglio avranno il vantaggio di aver potuto esaminare in anticipo e in dettaglio le opzioni proposte dall’Eurotower. Il Consiglio direttivo, secondo prassi, si riunisce due volte al mese e comprende – oltre al presidente Draghi – altri cinque membri (al momento quattro) del Comitato esecutivo, più i governatori delle banche centrali nazionali dei 17 paesi dell’area euro. La riunione che conta, tradizionalmente, è quella del primo giovedì del mese: è in questa che viene valutata la situazione dell’economia e vengono prese le decisioni su tassi, interventi e altre misure di politica monetaria.
Rispetto ad altre istituzioni simili – come le Federal Reserve o la Bank of England – c’è una peculiarità: ovvero, che non vengono resi noti – neppure a posteriori – i particolari delle riunioni, l’andamento del dibattito e le posizioni di voto sui singoli provvedimenti. Ciò non toglie che qualche volta sia il presidente stesso, come di recente ha fatto lo stesso Draghi, a comunicare ai giornalisti qualche particolare sull’unanimità o meno del Consiglio. I paesi principali di solito possono contare su due voti: quello del membro del Consiglio esecutivo e quello del governatore della Banca centrale. Così è per l’Italia (oltre a Draghi siede in Consiglio anche Ignazio Visco), per la Francia (Benoìt Coeurè e Christian Noyer), per il Belgio (Peter Praet e Luc Coene), per il Portogallo (Vìtor Constàncio, vicepresidente, e Carlos Costa) e naturalmente per la Germania. In quest’ultimo caso, spicca – almeno in linea di massima – la contrapposizione fra la “colomba” Jorg Asmussen, membro del Comitato esecutivo e vicino alle posizioni di Draghi, e il “falco” Jens Weidmann, il presidente della Deutsche Bundesbank che per tenere ferma la sua posizione la settimana scorsa ha addirittura minacciato le dimissioni.
Entrambi sono stati scelti da Angela Merkel e quindi si presupporrebbe che aderiscano a un identico mandato, quello di difendere il rigore caro ai tedeschi nel quadro di una cornice di solidarietà europea e con l’obiettivo della crescita comune. Ma i due giovani economisti (Asmussen ha 46 anni, Weidmann appena 44) sembrano interpretare il loro mandato con spirito assai differente. Si potrebbe immaginare, quindi, che alla riunione di giovedì lo scenario possa diventare quello di 21 contro 1 (Weidmann, appunto). Ma come ha ricordato di recente lo stesso capo della Bundesbank, la banca centrale tedesca avrà pure un solo voto come tutti gli altri istituti, ma è un voto da primus inter pares. E Mario Draghi lo sa perfettamente.