Saranno stati “rivoluzionari con il culo al caldo”, ma i ragazzini protagonisti di “Après mai”, il film di Olivier Assayas, in concorso alla 69esima Mostra del Cinema di Venezia, riscuotono un inaspettato successo di pubblico e critica non riservato di certo a troppi film in questo pallido Festival 2012.
Semplicità è la parola d’ordine dell’oramai ex critico cinematografico francese , il 57enne Assayas, nel raccontare le vicende di un sestetto di liceali della periferia parigina, alle prese con l’impegno politico rivoluzionario appena dopo il maggio francese del 1968, e più precisamente nel 1971.
Stessi ideali, stessa energia e parole delle barricate di tre anni prima, là sull’estrema sinistra, oltre il comunismo ufficiale, con un occhio all’Oriente, alla musica underground, agli acidi, ma anche all’idea di un cinema nuovo e a quel collegamento con la lotta operaia che mai si realizzò nella pratica. Gilles, Christine, Alain, Laure, Jean-Pierre, Leslie non hanno nemmeno diciott’anni ma hanno già capito che il mondo “borghese” dei loro padri e delle brigate speciali della polizia che manganellano in moto e lanciano lacrimogeni ad altezza d’uomo, non sono il loro futuro. Cercano altro, forse prima per sé, che per il mondo intero, ma la fatica è la stessa, quasi titanica.
“E’ stata un’epoca seria, ossessionata dalla politica, soffocata dal super-io”, spiega un Assayas in grande spolvero tra lingua italiana, francese ed inglese, “ci si preoccupava di tutto: della responsabilità verso la classe operaia, sui valori astratti presenti in tutto il XX secolo. E nella sinistra dell’epoca, che ricordo era antagonista al Partito Comunista Francese, c’era qualcosa di triste e malinconico che ho cercato di riportare nel film. Anche se non ho voluto lanciare nessun messaggio, se non quello dell’arte come resurrezione”.
Perché Gilles in primo luogo, sorta di alter ego del regista, e tutti gli altri protagonisti, eccetto uno che si perderà tra i mille rivoli di attentati bombaroli, cercano proprio nell’arte, nel cinema, nella danza e nella pittura , la propria emancipazione, il proprio linguaggio rivoluzionario, il tassello di una controcultura che doveva essere di massa, ma che è rimasta possibile realizzazione individuale.
“C’era molta diffidenza all’epoca rispetto alle espressioni tradizionali dell’arte e della cultura”, spiega Assayas, “si pensava che la fiction cinematografica fosse un linguaggio piccolo borghese e si cercava una propria strada sperimentale. Io non ho seguito questi precetti teorici, ma ho comunque tentato di fare un cinema con una sintassi che si mette in discussione e definisce nuovi spazi e territori”.
Cinema intimista quello di Assayas, che ha davanti alla macchina da presa uno stuolo di giovani attori davvero sublimi. E sono loro a dimostrare che le radici di una protesta e di un ragionamento globale sulle ingiustizie del mondo non è finito lì: “Quei ragazzi mi ricordano quelli di Occupy e gli Indignados di oggi afferma India Salvor Menuez, nel film Leslie, “magari i gruppi di oggi sono più disorganizzati e più compiaciuti, ma i sentimenti di quell’epoca mi sembra ci siano”.
“Forse oggi la politica non consente più di farsi sentire e cambiare le cose”, aggiunge l’altra fanciulla protagonista, Lola Creton, “ma hanno trovato altri mezzi per potersi esprimere”. “La differenza tra quei giorni e oggi”, chiosa Assayas, “è che all’epoca la controcultura era sviluppata da una vera minoranza. Voglio dire la musica underground era davvero tale. Però erano minoranze attive che portavano e facevano affermare cambiamenti per molti. E questo oggi, nemmeno con la democratizzazione del web, riesce più a verificarsi”.