Una donna è una donna, anche se vive in un paese martoriato dall’occupazione e da una guerra senza tempo come la Palestina”. E’ lapidaria Buthina Canaan Khoury quando parla della vita in Palestina al femminile. “E’ vivere in un territorio occupato che fa la differenza. Per le donne o per gli uomini è lo stesso”. Eppure Buthina è la prima regista donna ad aver fondato una società di videoproduzioni in Palestina: la “Majd productions”, nata nel 2000 per produrre Women in struggle, il suo primo documentario.

“Quel lavoro parla di tutte quelle donne che hanno sacrificato gli anni migliori della loro vita nelle prigioni israeliane. E di cosa hanno dovuto affrontare dopo, una volta rientrate nella società palestinese”. Studi negli Stati Uniti, primi lavori da professionista per organizzazioni internazionali, negli anni Buthina si è affermata come documentarista, riuscendo caparbiamente a farsi produrre dalle più importanti televisioni d’Europa del settore (Arte France tra queste). In questo momento sta sviluppando il suo primo film di finzione e la sua preoccupazione più grande è convincere produttori e finanziatori internazionali a darle fiducia in questa impresa. “Sono stata l’unica filmmaker donna in Palestina per molti anni – aggiunge Buthina – ma sono contenta che sempre più ragazze si stiano avvicinando a questo lavoro. Abbiamo bisogno di raccontare il nostro tempo. Di far uscire le nostre storie nel resto del mondo”.

Che uscire dal suo Paese non sia facile è noto. Si tratta di una difficoltà concreta, geografica, burocratica, economica e soprattutto politica. Per incontrare Buthina l’abbiamo raggiunta a Ramallah attraversando il checkpoint di Kalandia perché per lei è quasi impossibile avere un permesso per uscire, arrivare a Gerusalemme o a Tel Aviv. Da lì ci ha accompagnato nel suo villaggio natale, dove ancora vive. Si chiama Taybeh, con i suoi 5000 anni di storia (il vecchio nome è Ophrah, presente anche nell’Antico Testamento) è uno degli insediamenti più antichi della Palestina e l’unico villaggio completamente cristiano della regione. Anche se gli abitanti di Taybeh non vogliono distinzioni. Si sentono arabi tra gli arabi e la causa palestinese è la loro causa.

Ed è da Taybeh che Buthina guarda il mondo e lo racconta, partendo dalla sua comunità e dalla sua famiglia. Il suo ultimo documentario “Taste the revolution” narra proprio la straordinaria storia dei suoi fratelli, ritornati in Palestina dopo aver vissuto 30 anni negli Stati Uniti con il solo proposito di aprire la prima e unica birreria palestinese. Una specie di favola moderna che si chiama appunto Taybeh beer. Un miracolo concretizzato a dispetto di leggi restrittive, checkpoint da superare e un mercato tutto da conquistare in una terra a maggioranza musulmana: “Devo ricordarti che i musulmani non bevono birra?” mi dice Buthina. Eppure il sogno è realtà, la birreria è attiva e la Taybeh beer è esportata e apprezzata nel mondo. “Volete darci una mano? Venite all’Oktoberfest di Taybeh. Un segnale di normalità e speranza da queste parti. Arrivano qui da tutta Europa”.

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