Magari in giro per Roma, Bologna o Milano avete visto qualcosa di suo, qualche soggetto strano, magari un freak, che vi guarda con occhi stralunati da un muro. E se non avete avuto la fortuna di vedere ancora niente, ve lo auguro davvero di cuore, perché la street art di Aloha Oe, trentaquattrenne anonimo di stanza a Roma, è un piacere per gli occhi e per la mente. Si tratta di poster dipinti a mano con smalti o acrilici che attacca in giro per la città, magari nottetempo, perché a lui la storia della cosa semi-illegale piace molto e si vede. Del destino delle sue opere, in realtà, non si cura molto: “Rimangono lì fino a che non li rubano o strappano, o cadono da soli con la pioggia. Sono pezzi unici destinati alla distruzione”.
Di primo acchito potrebbe sembra la risposta italiana a Banksy, un Banksy “de noantri” insomma. Ma Aloha Oe ha tematiche proprie, frutto evidentemente di studi approfonditi su alcuni tipi umani per lui particolarmente interessanti. Quando lo contattiamo su Facebook (perché di incontrarlo non se ne parla proprio), ci descrive così i soggetti immortalati: “Sono perlopiù personaggi eccentrici, stravaganti, divertenti, camp, glamour, weird. Personaggi ritenuti folli, ai margini o disinteressati al sistema comune”.
Si dedica molto alle tematiche LGBT (la sua prima “affissione” coincide, forse non a caso, con il Pride del 2010), e in questo periodo sta studiando le chat, “il modo in cui si propongono molti gay sul web, le dinamiche che si vengono a creare”. Parti intime, soprattutto, e quindi non adatte a essere esposte in strada. “Lì – ci dice – c’è un altro discorso”. Ha un piccolo studio a Garbatella e in questi giorni sarebbe dovuto andare a Berlino ad appiccicare qualcosa qua e là anche nella capitale tedesca. Niente da fare, però, visto che Aloha Oe è immobile per un infortunio, pare un gomito rotto.
La sua opera più bella, a mio avviso, è quel viso barbuto e machissimo che fa bella mostra di sé al Pigneto, a Roma, intento a passarsi il rossetto sulle labbra, la quintessenza di quel gioco di identità sessuale che la fa da padrone in molti dei suoi “manifesti”. E poi un uomo corpulento che a fatica tenta di allacciarsi un bustier, un altro bear in tutù, una drag queen armata di pistola, un cupo e angosciante monatto, due chiappe marmoree con zainetto sulle spalle. È evidente il gusto che Aloha prova nel riprodurre tipi umani che alla maggioranza di noi strapperebbero un sorriso, se non peggio, così come è chiaro il gusto della provocazione (il profilo di un prorompente pene maschile sotto uno slip griffato è in giro per Roma, tanto per gradire). Quando gli chiedo se “quelli che se ne intendono” si sono accorti di lui, la sua risposta è eloquente: “Ho curatori che mi chiamano regolarmente per sapere novità, galleristi, altri amici artisti, qualche collezionista. Ma per me quelli che se ne intendono sono un po’ dappertutto, non sono solo quelli che lavorano nell’arte. E poi a me piace la reazione delle persone comuni, la loro faccia di fronte a una mia opera. Mi piace stupirli”.
Chissà se l’intento politico-sociale di Aloha Oe sortisce l’effetto desiderato… Di sicuro, dal punto di vista artistico, è efficacissimo. Soprattutto in una città come Roma, legata a doppio filo a un’arte vecchia e stantia, poco incline alle sperimentazioni e all’eccesso, le sue opere rappresentano una boccata d’aria fresca. E un pugno allo stomaco allo stesso tempo, ovviamente, perché non sarebbe Aloha Oe senza un po’ di sana contraddizione.