Tutti gli atti del conflitto di attribuzione scatenato dal Quirinale davanti alla Consulta: fin dal 6 luglio il procuratore Messineo aveva avvertito l'Avvocatura che avrebbe chiesto al gip di distruggere le telefonate "osservando la legge". Ma è proprio quello che il Colle non vuole
Dopo quasi due mesi siamo finalmente in grado di conoscere e pubblicare le carte del conflitto di attribuzioni attivato con decreto del 16 luglio 2012 dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano davanti alla Corte costituzionale contro la Procura di Palermo tramite dell’Avvocatura dello Stato.
20 giugno – Tutto comincia quando Panorama rivela l’esistenza di alcune telefonate casualmente intercettate sul telefono dell’ex senatore Nicola Mancino a colloquio con il capo dello Stato.
22 giugno – Il pm Nino Di Matteo risponde alle domande del quotidiano Repubblica, confermando la notizia ormai nota a tutti: “Negli atti depositati non c’è traccia di conversazioni del capo dello Stato e questo significa che non sono minimamente rilevanti”. A una domanda sulla sorte di tutte le telefonate non rilevanti, segretate e non depositate, Di Matteo risponde ancora una volta illustrando ciò che prevede il Codice di procedura: “Noi applicheremo la legge in vigore. Quelle che dovranno essere distrutte con l’instaurazione di un procedimento davanti al Gip saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti”.
27 giugno – Napolitano attiva subito l’Avvocato generale dello Stato, Francesco Caramazza, che scrive al procuratore capo di Palermo Francesco Messineo: “Illustre Procuratore, nel quotidiano la Repubblica del 22 giugno è stata pubblicata un’intervista… dalla cui risposta emerge che sarebbero state intercettate conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica, allo stato considerate irrilevanti, ma che la Procura di Palermo si riserverebbe di utilizzare… In presenza di tale notizia di stampa, il Segretario generale della Presidenza della Repubblica ha dato mandato al mio Istituto di indirizzarle la presente lettera per chiedere una conferma o una smentita di quanto risulta dall’intervista, acciocché la Presidenza della Repubblica possa valutare la adozione delle iniziative del caso”.
6 luglio – Messineo risponde con una lettera del pm Di Matteo e una di suo pugno. Di Matteo spiega di aver risposto a una generica domanda con “l’ovvio richiamo alla corretta applicazione della normativa in tema di utilizzo degli esiti delle attività di intercettazione telefonica”. Messineo aggiunge: “Le comunico che questa Procura, avendo già valutato come irrilevanti ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al capo dello Stato, non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge”. Se dunque qualche equivoco poteva essere nato dall’accenno del pm a un eventuale utilizzo di telefonate in altri procedimenti, Messineo provvede a dissiparlo: la Procura chiederà che le telefonate Mancino-Napolitano siano distrutte, come prevede la legge, nell’apposita udienza dinanzi al gip, previo eventuale ascolto da parte degli avvocati difensori (articolo 269 del Codice di procedura). Ma è proprio la garanzia di “osservanza delle formalità di legge” che, anziché rassicurare il Quirinale sull’assoluta legittimità delle decisioni della Procura, fa saltare la mosca al naso a Napolitano.
16 luglio – Napolitano si firma il decreto che solleva il conflitto di attribuzioni contro la Procura. Il timore, evidentemente, è che il contenuto delle sue telefonate con Mancino, fatto ascoltare – come prevede la legge – agli avvocati difensori degli indagati che ne facciano richiesta, trapeli all’esterno.
30 luglio – L’Avvocatura dello Stato deposita il ricorso alla Consulta: 18 pagine (piu alcuni allegati) firmate da Caramazza, dal vice Antonio Palatiello e dall’avvocato Gabriella Palmieri. Ecco i passaggi più discutibili.
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Pieno, non vuoto – “Il Presidente della Repubblica non ritiene di poter condividere la tesi del Procuratore della Repubblica, in quanto, a norma dell’art. 90 della Costituzione e dell’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219, salvi i casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione e secondo il regime previsto dalle norme che disciplinano il procedimento d’accusa, le intercettazioni delle conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorché indirette e occasionali, sono, invece, da considerarsi assolutamente vietate e non possono, quindi, essere in alcun modo valutate utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione. Comportano, quindi, lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione, l’avvenuta valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione (investigativa o processuale), la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento e l’intento di attivare una procedura camerale che – anche a ragione della instaurazione di un contraddittorio sul punto – aggrava gli effetti lesivi delle precedenti condotte”.
Vengono smentiti quanti minimizzano il conflitto, riducendolo a mera disputa accademico-interpretativa sulle norme relative alle prerogative del capo dello Stato; e ancor di più quanti sostengono che il Presidente abbia segnalato un “vuoto normativo” sull’uso o la distruzione di sue telefonate indirettamente intercettate. Napolitano e i suoi avvocati pubblici sostengono un “pieno legislativo”, nella Costituzione e nella legislazione ordinaria, che proibirebbe alla Procura di fare ciò che ha fatto. Infatti accusano i pm di Palermo di aver compiuto atti “assolutamente vietati” dalle norme vigenti, con conseguente “lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione”.
Norme che non c’entrano – L’Avvocatura cita l’ “art. 90 della Costituzione” e “l’art. 7 comma 3 della legge 219/1989”. L’art. 90 stabilisce che “il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione…”. La legge 219/1989 s’intitola “Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’art. 90 della Costituzione”. Dunque entrambe le norme riguardano le procedure di messa in stato di accusa del Presidente per attentato alla Costituzione o alto tradimento. Per i quali il capo dello Stato può essere intercettato e indagato solo dopo che il Parlamento in seduta comune l’ha messo in stato di accusa a maggioranza assoluta dei suoi membri. Dunque le due norme non riguardano il caso Napolitano-Mancino, dove il presidente non è stato messo in stato d’accusa da nessuno. Né riguardano le attività (e i possibili reati) del Presidente al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, per i quali può essere indagato e dunque intercettato come ogni altro cittadino italiano. Né tantomeno si riferiscono alle intercettazioni indirette, sempre legittime, salvo che coinvolgano un parlamentare (in quel caso si possono usare solo previa autorizzazione a procedere).
Funzioni infinite – “Le prerogative che la Costituzione attribuisce al Capo dello Stato sono strettamente funzionali agli altissimi compiti che è chiamato a sostenere nell’espletamento della citata funzione di garanzia complessiva del corretto andamento del sistema che egli esercita, mantenendo, appunto, l’unità della Nazione. E’ del tutto evidente che, nell’espletamento di questi compiti, al Presidente della Repubblica deve essere assicurato il massimo di libertà di azione e di riservatezza, appunto perché alcune attività che egli pone in essere, e certamente non poco significative, non hanno un carattere formalizzato. Il proseguimento delle finalità costituzionali caratterizza, dunque, l’attività, sia formalizzata sia non formalizzata, del Presidente della Repubblica connotandola in senso funzionale, così che la protezione derivante dall’immunità prevista dall’art. 90 della Costituzione ricomprende tutti gli atti presidenziali, nei quali siano appunto rinvenibili quelle finalità”.
L’Avvocatura impiega pagine e pagine per dimostrare che, nelle telefonate col privato cittadino Nicola Mancino, il Presidente stava esercitando le sue funzioni di Capo dello Stato: sforzo davvero encomiabile, ma del tutto vano, visto che il distinguo fra attività funzionali ed extrafunzionali potrebbe riguardare le intercettazioni dirette, non quelle indirette. Ma proprio qui sta uno degli autogol degli avvocati pubblici: per stabilire se una telefonata rientri nelle funzioni presidenziali o meno, occorre ascoltarla: proprio quel che ha fatto la Procura per stabilirne l’irrilevanza penale, e proprio quello che per l’Avvocatura costituisce una lesione delle prerogative del Presidente.
Ricalcando le tesi di Berlusconi sull’estensione pressoché infinita delle funzioni di premier (al punto da ricomprendervi le telefonate alla Questura di Milano per far rilasciare “Ruby” fermata per furto nelle mani di Nicole Mi-netti e di una prostituta brasiliana), l’Avvocatura estende le funzioni tipiche del Capo dello Stato su confini talmente vasti da sfiorare l’infinito. In realtà le funzioni del Presidente della Repubblica sono molto circoscritte e ben formalizzate dalla Costituzione. Tutto il resto, estraneo alle funzioni, non è coperto da alcuna immunità. Altrimenti non avrebbe avuto alcun senso che i costituenti distinguessero gli “atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni” da tutti gli altri. Tant’è che la irresponsabilità penale e politica del Presidente richiamata dall’Avvocatura richiede la controfirma del presidente del Consiglio o dei singoli ministri, il che la limita agli atti scritti, ufficiali: non alle parole dette qua e là, telefono compreso. Salvo, si capisce, dimostrare che una dichiarazione o una telefonata erano appunto funzionali all’esercizio di una delle precise funzioni attribuite al Presidente (nomine, questioni di governo o di Csm, faccende militari, colloqui con altri capi di Stato, discorsi alla Nazione ecc.).
Corte contro Corte – “Quello che si desume con assoluta chiarezza dal combinato disposto dell’art. 90 della Costituzione e … della legge del 1989 è l’impossibilità di intercettare e anche, se del caso, di utilizzare il testo di quelle intercettazioni, proprio perchè il Presidente della Repubblica, anche se messo in stato d’accusa non può, fino a quando è in carica, subire alcuna limitazione nelle sue comunicazioni, dato che altrimenti risulterebbe lesa la sua sfera di immunità… Lo stesso divieto di uso e utilizzazione dei medesimi mezzi di prova… non può logicamente, anche nel silenzio della legge (sic!, ndr), non estendersi ad altre fattispecie di reato che possano a diverso titolo coinvolgere il Presidente”.
Altro clamoroso autogol dell’Avvocatura, visto che non solo c’è un “silenzio della legge”, ma la Costituzione dice l’esatto opposto (irresponsabile solo nell’esercizio delle funzioni). Non solo: già la Corte costituzionale ha smentito questa sua ardita tesi di immunità totale del presidente per qualunque reato, funzionale o extrafunzionale. E’ la sentenza n. 154 del 2004, estensore Valerio Onida, presidente Gustavo Zagrebelsky. Si riferisce al conflitto di attribuzioni sollevato nel 1991 dal presidente Francesco Cossiga contro i giudici che lo processavano per diffamazione nei confronti del senatore Sergio Flamigni, i quali l’avevano denunciato per alcuni suoi pesanti apprezzamenti pronunciati davanti ai giornalisti durante un viaggio aereo. Cossiga sostenne di non essere processabile tout court in quanto protetto dallo scudo spaziale dell’immunità di Capo dello Stato. La Consulta dichiarò inammissibile il suo conflitto e spiego: “Spetta all’Autorità giudiziaria, investita di controversie sulla responsabilità del Presidente della Repubblica in relazione a dichiarazioni da lui rese durante il mandato, accertare se le dichiarazioni medesime costituiscano esercizio delle funzioni o siano strumentali ed accessorie ad una funzione presidenziale. E solo in caso di accertamento positivo ritenerle coperte dall’immunità del Presidente della Repubblica, di cui all’art. 90 della Costituzione”. Cioè: non tutto ciò che dice il Capo dello Stato rientra nelle sue funzioni e dunque è da ritenersi coperto da immunità: decidono caso per caso i magistrati, valutando nel merito le sue dichiarazioni, ovviamente dopo averle lette o ascoltate. Il che, fra l’altro, conferma come valutare una frase del Presidente non costituisce alcuna lesione delle sue prerogative, fermo restando che la Procura di Palermo, una volta accertata l’irrilevanza penale delle sue frasi (e di quelle di Mancino), non si è neppure spinta a esaminarne l’eventuale attinenza o meno con le funzioni presidenziali.
Vietato intercettare – “Il divieto di intercettazione riguarda anche le cd. Intercettazioni indirette o casuali comunque effettuate mentre il Presidente della Repubblica è in carica”. Qui si sfiora il paranormale. Come si può vietare un’intercettazione indiretta e casuale, visto che le apparecchiature di registrazione , una volta attivate per ordine del giudice, incidono automaticamente tutte le chiamate in partenza e in arrivo sulle utenze controllate? Forse l’Avvocatura pretende dai pm e dal gip di Palermo virtù divinatorie, in grado di prevedere, al momento della richiesta di intercettare Tizio, che Tizio chiamerà il Capo dello Stato o ne verrà chiamato.
Istigazione a delinquere – “E’ evidente che si debba ritenere la inutilizzabilità e procedere alla distruzione immediata del testo intercettato, ai sensi dell’art. 271 Cpp”. Ora, a parte il fatto che il 271 riguarda le telefonate illegali (e quelle di Palermo sono legittime) o quelle captate fra l’indagato e il suo legale, escluso comunque il caso che costituiscano “corpo del reato”, la procedura di distruzione è comunque affidata al “giudice” e mai al “pm”. Qui invece l’Avvocatura si fa scudo di quella norma, prevista per casi tutt’affatto diversi, per chiedere alla Consulta di intimare “alla Procura” l’“immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali del Presidente”. Una sorta di istigazione, alla Corte e ai pm, a violare la legge.