Sono i tre moschettieri di Mitt Romney. E la parte di d’Artagnan la fa Paul Ryan, uno che le guardie del Cardinale è meglio non l’incontrino. Però questa volta stiamo con quelli che, nei romanzi di Dumas, sono gli scherani di Richelieu. Perché quei 3 moschettieri hanno le fattezze delle agenzie di rating per antonomasia, se non proprio per eccellenza: ora che la campagna presidenziale è nella fase decisiva, hanno gettato la maschera – non quella di ferro, quella è un’altra storia – e si sono schierate al fianco del candidato repubblicano, unite al mondo della finanza nella crociata contro il democratico Obama.

In Europa, dove le agenzie di rating erano molto ascoltate, abbiamo cominciato, mesi fa, a interrogarci sul timing di certe sortite, nell’imminenza di elezioni o alla vigilia d’appuntamenti cruciali per l’euro e l’Eurozona? Quasi a volerne vanificare a priori ogni risultato. Con l’effetto che, a forza di gridare al lupo, magari a sproposito, la banda delle tre – Standard&Poor, Moody’s e Fitch – ha perso credibilità. In America sta accadendo un po’ l’opposto: laggiù, alle agenzie di rating non ha mai badato nessuno, almeno a livello di Amministrazione, un po’ perché parlavano sempre degli altri e un po’ perché l’America e gli americani si sentivano al di sopra del loro giudizio. Ma, ora che c’è la crisi e che loro fanno le pulci anche all’economia statunitense, analisti e opinione pubblica cominciano a farci caso. E magari a dare loro credito, soprattutto se, politicamente, fa gioco.

Dalla convention repubblicana, la settimana scorsa, è stato uno stillicidio anti-Obama. Mancava all’appello Moody’s, uscita allo scoperto ieri, all’avvio della convention democratica: le prospettive per il sistema bancario statunitense sono stimate negative per difficoltà interne e rischio di contagio dall’Europa che “potrebbe minare la ripresa negli Usa ed esporre le banche” a nuovi shock. Tassi d’interesse bassi, disoccupazione elevata, crescita debole e incertezze sulla fiscalità: gli istituti di credito americani resteranno, prevedibilmente, sotto pressione per i prossimi 12-18 mesi. Il 28 agosto, Fitch giudicava “a rischio significativo” la tripla A degli Usa, senza un aumento delle tasse o una stretta delle spesa entro la fine dell’anno, mentre distribuiva giudizi in chiaroscuro sull’Eurozona , senza escludere tagli dei rating. E il giorno dopo S&P Usa abbassava il voto dell’Illinois, lo Stato di Obama, avvilito a semplice A.

Dillo ieri, ridillo oggi, gli elettori s’interrogano. Un sondaggio di The Hill Global Affairs Blog indica che il 54% degli americani pensano che Obama non meriti un secondo mandato e che il 52% ha l’impressione di stare peggio oggi rispetto a 4 anni fa. Certo, i pareri risentono dell’ubriacatura mediatica repubblicana della scorsa settimana e andranno, quindi, verificati a fine settimana.

Contro Obama, ci sono le cifre della disoccupazione. Il tarlo del dubbio rode il presidente: che ieri si è dato un insufficiente in economia, perché il lavoro svolto è “incompleto” e l’Unione sta attraversando “uno dei periodi più duri” della storia recente, anche se – dice lui – sta andando “nella giusta direzione”. Non certo a giudizio delle agenzie di rating. A migliorare il clima tra agenzie e Amministrazione non contribuisce l’accusa di frode mossa a Moody’s e a S&P dagli inquirenti di New York (non solo Trani, dunque): avrebbero ‘tenuto su titoli venduti da Morgan Stanley e garantiti da mutui sub-prime. Una causa nata nel 2008, che matura proprio nella stretta elettorale.

Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2012

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