Vanno sempre più di moda gli studi che cercano di dimostrare che donne e uomini hanno cervelli diversi e che le differenze fisiologiche e biologiche sono alla base dei comportamenti che chiamiamo “femminili” e “maschili”. Nell’ultimo mese sono state pubblicate due ricerche che vanno in questa direzione. La prima è stata realizzata dall’Università di Zurigo e sostiene che il cervello di donne e uomini risponde in modo diverso all’ossitocina, l’ormone rilasciato dall’ipofisi e chiamato anche “ormone dell’amore”. Gli scienziati hanno osservato per un anno 40 coppie alle quali sono state sommistrate dosi di ossitocina arrivando alla conclusione che quest’ormone fa diventare le donne più calme e amichevoli e gli uomini più sensibili, propositivi ed eccitati sessualmente.

La seconda è stata fatta dall’Università di South Florida, dal National institutes of health, dalla Columbia University e dal New York state psychiatric institute e sostiene che le donne sono maggiormente predisposte alla felicità – ma anche all’ansia e agli sbalzi d’umore – degli uomini. Una conclusione a cui gli scienzati sono arrivati dopo aver analizzato l’azione del gene Maoa (acronimo di monoamino ossidasi A) su un campione di 192 donne e 152 uomini.

In voga anche le ricerche che cercano di spiegare i comportamenti di un genere rispetto ad un altro attraverso cause biologiche. Come lo studio di Gad Saad, docente di marketing alla John Molson school of business, pubblicato poche settimane fa. Analizzando il comportamento di un campione di 59 donne, Saad è giunto alla conclusione che durante la fase “fertile” del ciclo mestruale (dall’ottavo al quindicesimo giorno) le donne sono più interessate al loro aspetto fisico e quindi tendono a comperare più vestiti. Saad ha suggerito che questo modello di comportamento ha radici evoluzionistiche. Sarebbe cioè cominciato in tempi preistorici quando le donne, durante la fase fertile del ciclo, cercavano di rendersi più desiderabili per riuscire ad attirare i maschi per poi procreare.

Gli studi e le ricerche che cercano nella biologia e nella fisiologia le differenze – o le ragioni dei comportamenti – sessuali non convincono però tutta la comunità scientifica internazionale.

Rebecca Jordan-Young, docente ad Harvard, ha analizzato la questione nel saggio intitolato “Brain Storm, i difetti della scienza delle differenze sessuali” (disponibile soltanto in inglese). Per Jordan- Young gli studi che cercano di dimostrare le differenze sessuali basandosi sugli ormoni non soddisfano, nella maggior parte dei casi, gli standard scientifici. Ci sarebbe, infatti, una debolezza metodologica di fondo che rende impossibile pensare che si possano fare esperimenti in cui tutte le variabili sono controllate.

Dello stesso parere è anche Raffaella Rumiati, docente di Neuroscienze cognitive alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste e autrice di svariate pubblicazioni scientifiche e mainstream, tra cui “Donne e Uomini. Si nasce o si diventa?”. Secondo Rumiati non è chiaro quali siano le eventuali differenze cognitive o comportamentali che corrispondono alle differenze morfologiche tra i cervelli maschile e femminile riportate nella letteratura scientifica. Anche il fatto che le donne abbiano, in genere, un cervello più piccolo degli uomini non implica una riduzione di funzionalità. “La grandezza del cervello è proporzionale al resto del corpo – dice Rumiati. – Sarebbe come dire che le persone basse sono meno intelligenti di quelle alte”.

A supportare la tesi di Rumiati c’è un recente saggio di James Flynn, uno dei massimi esperti internazionali di studi sul Qi (Quoziente intellettivo). Flynn dice che negli ultimi cento anni le donne hanno superato gli uomini in fatto di intelligenza, migliorando le prestazioni nei test del Qi. E questo non certo perché i loro geni o le dimensioni del cervello sono cambiate ma perché sono diventante più istruite e hanno raggiunto maggiori possibilità di espressione rispetto al secolo scorso.

E allora perché c’è chi continua a insistere nel volere dimostare che esistono differenze biologiche tra i cervelli maschile e femminile e che sono alla base di diversi comportamenti? “Nonostante le critiche e le perplessità – dice Rumiati – negli ultimi dieci anni le neuroscienze hanno esercitato un notevole fascino, come testimonia il proliferare di nuovi campi di indagine con il prefisso neuro-: neuroeconomia, neuroetica, neuro estetica e così via. Anche lo studio delle differenze sessuali ha subito questo fascino a giudicare dall’intrusione nella letteratura sulle differenze di molti termini neuroscientifici per esprimere però dei concetti antiquati e retrivi. Questo fenomeno è particolarmente evidente nei testi divulgativi sulle differenze sessuali”.

Un fenomeno che è stato definito dalla scienziata australiana Cordelia Fine con il termine “neurosessismo”. Secondo Fine, il neurosessismo si manifesta per esempio, quando si afferma che le donne sono più portate degli uomini a prendersi cura degli altri. Un’attitudine che è sempre stata considerata “naturale” e che ora si ammanta di un linguaggio scientifico. Oppure quando si dice che le donne non sono portate per la matematica, l’informatica e le materie scientifiche in generale. “Non ci sono prove scientifiche convincenti del fatto che le donne non siano portate per le materie scientifiche – dice Rumiati. – Bisogna quindi arrendersi all’idea che se ci sono poche iscritte nelle facoltà scientifiche e poche docenti donne c’è qualcosa che non funziona nel sistema educativo della maggior parte dei paesi cosiddetti sviluppati. In paesi più evoluti per quanto riguarda le uguaglianze sociali e la parità di genere, come ad esempio l’Islanda e la Norvegia, le adolescenti hanno dei risultati scolastici per la matematica simili a quelli dei coetanei maschi. In Italia, invece, il gap è ancora notevole e simile a quello riscontato in Turchia”.

Nonostante una parte della comunità scientifica abbia smontato i vari studi che cercano di dimostrare che le differenze tra uomini e donne hanno soprattutto basi biologiche, il neurosessimo continua a spopolare. Questo accade, secondo Rumiati, “anche o soprattutto al fatto che le neuroscienze offrono le immagini dei fenomeni che studiano. Per esempio è possibile, utilizzando la risonanza magnetica funzionale, vedere le aree del cervello che si attivano quando i soggetti sperimentali leggono parole oppure osservano volti. Questa visualizzazione dei correlati cerebrali della lettura o del riconoscimento dei volti rende la spiegazione di che cosa sia la lettura o il riconoscimento più ‘vera’ ”.

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