Secondo l'Economist dietro alla multinazionale cinese si nasconderebbe il partito comunista più grande del mondo. E in azienda esistono anche i lavoratori "combattenti": quelli che fanno a meno di alcuni diritti (straordinari, maternità) per fare carriere e avere scatti di salario
Il primo numero di agosto dell’Economist aveva in copertina alcuni cellulari con la bandiera cinese sullo schermo e la frase di sfondo: “Chi ha paura della Huawei?”. Domanda legittima, che negli articoli successivi veniva indagata: gli Stati Uniti e non solo, cercano di arginare il nuovo colosso delle telecomunicazioni cinesi, perché dietro la patina di multinazionale si nasconderebbe proprio il Partito Comunista più grande del mondo.
La Huawei negli ultimi anni ha aumentato i propri numeri, arrivando a 32 miliardi di dollari di giro d’affari, con 140mila lavoratori e oltre 100 sedi in tutto il mondo. E’ ormai in grado di competere sul mercato mondiale delle infrastrutture tecnologiche di comunicazione, ma anche in quello dei cellulari o dei sistemi di cloud computing, grazie alla qualità e non solo alla competitività dei prezzi che l’hanno contraddistinta nei primi anni della sua ascesa.
Si tratta di un’azienda che ha al suo interno, fin dalla nascita, alcuni lati oscuri che contribuiscono alla diffidenza con cui viene vista da molti mercati mondiali, primo tra tutti quello degli States. Intanto, pur essendo una cooperativa, è stata fondata da Ren Zhengfei – ex ingegnere militare – che riuscì a entrare nel Partito comunista cinese nel 1978. Un ritardo causato dall’appartenenza del padre agli sconfitti del Kuomintang. Oggi Ren detiene solo l’1,42% delle quote azionarie, ma la sua presenza fa insospettire non pochi circa la vicinanza tra esercito, partito e azienda, nonostante le garanzie che dovrebbe affidare un management sempre più internazionale.
La Huawei è anche nota per alcune “caratteristiche”: lo “spirito del materasso”, i “lavoratori combattenti” e lo “spirito del lupo”, sintomi dell’anima dell’azienda molto competitiva e organizzata – almeno in Cina- in modo gerarchico e quasi militare.
La “cultura del materasso”: si tratta di un classico negli uffici cinesi, fare un pisolino dopo la pausa pranzo. Finito di mangiare, spesso i cinesi appoggiano braccia e testa al tavolo e si fanno una pausa di mezz’ora di sonno completo. Secondo i dirigenti Huawei incontrati a Shenzhen, il materasso posto sotto la scrivania aiuterebbe a godersi questa abitudine rendendola più umana e godereccia. Diversa l’opinione di alcuni dipendenti della Huawei che in modo anonimo hanno invece denunciato come il materasso, almeno agli albori dell’azienda cinese, servisse soprattutto a dormire in ufficio anche di notte, dati i ritmi di lavoro sempre più alti.
Il Nanfang Zhuomo, magazine in lingua cinese, nel dicembre del 2010 aveva provato a raccogliere voci interne all’azienda, riguardo un accordo che sarebbe intercorso tra Huawei e lavoratori. Al momento della firma del contratto, il lavoratore poteva infatti scegliere se essere “combattente” o semplice “lavoratore”. I “combattenti” avrebbero accettato di rinunciare ad alcuni diritti (straordinari, maternità) ma avrebbero avuto più possibilità di fare carriera e avere scatti di salario, il lavoratore normale, invece, avrebbe mantenuto i diritti ma avrebbe avuto penalizzazione nelle promozioni e nei dividendi finali. Una scelta molto discussa in Cina, su cui gli stessi lavoratori finirono per esprimersi in maniera diversa.
Si tratta dell’anima che contraddistingue, fin dalla nascita, l’azienda. Fu lo stesso Ren Zhengfei, negli anni Novanta, paragonando le multinazionali dell’epoca agli elefanti, a dire che la Huawei doveva sviluppare “lo spirito del lupo”, composto da un grande fiuto, un istinto competitivo e un afflato di sacrificio e cooperazione.
Fattori che ne hanno determinato la crescita e il successo, non solo in Cina: la Huawei ha infatti uno slancio internazionale fin dalla sua nascita, con una tecnica che secondo l’Economist si potrebbe definire maoista: dapprima in Cina la Huawei si è concentrata nei piccoli centri, fornendo i propri servizi e arrivando dopo nelle grandi città. E anche la sua tattica internazionale avrebbe utilizzato un metodo simile: partita da paesi limitrofi, ha finito per diventare leader sui più importanti mercati mondiali.
di Simone Pieranni