Fino al 9 settembre esposta al Salone internazionale della casa la linea di abiti e accessori Fumne. I capi sono realizzati da otto donne tra i 25 e i 55 anni di varie nazionalità provenienti dalla Casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino. La coordinatrice: "Recuperiamo la femminilità oltre la sofferenza"
Mani che cuciono con passione abiti, borse e cappotti, mani di otto donne tra i 25 e i 55 anni che vengono dall’Italia, dal Marocco, dall’Albania. Sono le mani delle detenute della Casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino. A poggiarle su stoffe e macchine da cucire è stata Monica Gallo, ex designer d’interni ,che ha fondato l’associazione “La casa di Pinocchio” per sostenere il lavoro femminile in carcere.
Dal 6 al 9 settembre la loro linea di abiti e accessori Fumne (“donna” in dialetto piemontese) è esposta al Macef di Milano, il salone internazionale della casa.
Il laboratorio comincia nel 2008 con un gruppo di detenute cosiddette “incolumi”, cioè quelle che rischiano forti contrasti con le altre per il tipo di reati commessi. Monica decide di rivolgersi a loro perché sono le più isolate. L’iniziativa ha successo e viene estesa anche alle altre. Le donne sono selezionate dagli educatori. Si cerca di dare la precedenza a chi soffre di depressione o ha tentato il suicidio. Tutte vengono regolarmente assunte.
“La situazione delle carceri è molto triste – racconta la Gallo – e sta peggiorando sempre più. Ormai mancano beni di uso quotidiano come la carta igienica. Nel braccio femminile ci sono 140 detenute, non c’è sovraffollamento, ma solo 20-25 lavorano grazie a iniziative come la nostra”.
All’inizio le ragazze usavano materiali di riciclo regalati dalle signore torinesi. Poi, grazie a un contributo della Compagnia di San Paolo, hanno acquistato lane e tessuti. “Ho scoperto dei talenti innati – racconta Monica -Non ho mai insegnato nulla, ho lasciato che ognuna si esprimesse con ciò che sapeva fare. C’è chi è più portata per il ricamo, chi accosta i colori con un gusto straordinario, si uniscono le singole capacità. Nei primi tempi il nostro lavoro era più manuale, reinventavamo oggetti, oggi abbiamo dei veri e propri progetti stilistici“. A Macef ci saranno anche la nuova linea bambino, pensata dalle detenute mamme, e dei tappeti di lana. “Ho scelto di andare a una fiera internazionale – precisa – perché i nostri capi sono a prescindere belli e di qualità. Certo, il valore aggiunto è la sofferenza di chi li ha realizzati, ma sono stati fatti da donne, prima ancora che da detenute”. Anche per questo hanno scelto il nome “Fumne”, per porre l’accento sull’elemento femminile e non sulla detenzione.
“Uno degli obiettivi del progetto – racconta la Gallo – è proprio il recupero della femminilità. E’ bello veder le ragazze provarsi gli abiti, tornare vezzose, sorridere. Cambiano persino i lineamenti, i visi si distendono perché qui respirano armonia e sfogano la rabbia. Ricordo, tra le tante, Daniela che da anni aveva smesso di parlare. E’ arrivata da noi prima della fine della sua pena e ha ritrovato la forza per affrontare il mondo esterno”. Un sabato sì e uno no nel laboratorio del carcere si tengono corsi di moda e cucito per le donne libere.” Anche questa è un’esperienza importante – sottolinea Monica – perché si instaurano rapporti con chi non appartiene al complesso microcosmo carcerario”.
Le creazioni di Fumne vengono vendute in uno showroom all’interno della casa circondariale e in molte boutique del nord Italia. I negozianti, però, richiedono capi in serie, per confezionarli sono necessari i materiali che per ora sono stati acquistati soprattutto con il contributo della Compagnia di San Paolo. “Spero in Macef – sospira Monica – La buona riuscita di questa fiera sarebbe il riconoscimento del duro lavoro di tutte noi e il punto di partenza per nuove produzioni e distribuzioni. Le istituzioni locali ci concedono patrocini e spazi, ma non riceviamo alcuna sovvenzione”. “La crisi – spiega – sta soffocando tutta la società, figuriamoci le carceri. L’ex direttore del “Lorusso Cotugno” una volta mi ha detto che per capire cosa succederà tra due anni nel nostro Paese dobbiamo guardare dentro i penitenziari di oggi. E’ una riflessione giusta, un po’ mi spaventa. Ma per ora continuo a pensare al presente”. Ci sono ancora tante donne da aiutare, modelli da creare, obiettivi da raggiungere.