La lanciatrice del peso, oro alle Paralimpiadi di Londra, ha un sogno: ritornare a gareggiare ai Giochi dopo l'esperienza di Pechino e, soprattutto, dopo la malattia che l'ha resa cieca. Lo dice al Fatto.it: "Lo sento, ce l’ho nelle braccia, mi serve solo un po’ di allenamento serio"
Tre ori, speciali. Lo sono sempre del resto, ma questi forse ancor di più. Assunta, Alex e Martina: così diversi e così uguali, nel giorno del trionfo. Speciali, appunto: per l’Italia, perché arrivano insieme, in una Paralimpiade e non in una gara qualsiasi. Ma speciali soprattutto per loro, perché si tratta di una vittoria non solo sportiva. Il successo della Martina Caironi nei 100 metri T42 arriva a sera inoltrata, quando a Casa Italia già si festeggia col “factotum” De Pellegrin: portabandiera, oro paralimpico e anche coppiere. Un brindisi in più per Martina, che se lo merita tutto: oro e record del mondo per la 20enne di Bergamo, che 5 anni fa ha perso la gamba sinistra in un incidente stradale e oggi corre più veloce di tutti.
La storia di Alex Zanardi la conoscono in molti. Pilota di successo, tra Formula 1 e Formula Cart, fino a quel maledetto incidente nel 2001, in cui rischiò la vita e perse entrambe le gambe. Alex, pur avendo ricevuto l’estrema unzione, non è morto. Si è ripreso e da quel giorno ha fatto un po’ di tutto: è tornato in pista a bordo di una vettura appositamente modificata, è diventato anche presentatore televisivo. Ma non era abbastanza. E allora si è reinventato campione di handbike: in pochi anni è diventato il numero uno. Velocissimo, come sempre: perché i quasi 40 chilometri orari di media con cui ha vinto ieri la prova a cronometro non saranno i 300 e passa dell’automobilismo, ma certo non sono poca cosa. Dopo la vittoria ha ringraziato i tifosi (“Mi avete davvero toccato il cuore con il vostro supporto”) ma anche la dea bendata: “Ho avuto tantissimo nella vita”.
E poi c’è Assunta Legnante. Lei non è la prima volta che sale su un podio internazionale. Aveva partecipato alle Olimpiadi di Pechino, quattro anni fa. Ed era stata campionessa europea indoor nel 2007, ad esempio. Ma allora vedeva. Poi la malattia: un glaucoma congenito, perde prima l’occhio destro, poi anche il sinistro e nonostante diversi interventi chirurgici è diventata cieca. Oggi sorride, è campionessa paralimpica. E dice: “Ringrazio tutti quelli che mi sono stati vicino ed il Comitato Paralimpico: non si tratta solo di sport, per me questo vuol dire ricominciare a vivere”.
Per lei in fondo più di tutti gli altri. Perché nella vita non era una studentessa, o un pilota, o altro: lei era una campionessa di getto del peso. E oggi lo è di nuovo. Ma non è stato facile. “Quando ho perso la vista anche dal secondo occhio ho passato momenti davvero duri” ha raccontato a ilfattoquotidiano.it. “Non riuscivo più a pensare allo sport, a considerarmi un’atleta. Devo molto alla Federazione: mi hanno fatta sentire importante, mi hanno aiutata a trovare questa nuova strada. Hanno fatto davvero un gran lavoro”. Un lavoro particolare, nel suo caso: più psicologico che tecnico. “Da questo punto di vista in effetti non ho molti problemi: ricordo bene i movimenti. Il difficile è stato trovare le motivazioni, rimettermi in forma”.
Un’operazione andata a buon fine, come testimonia l’oro e il record mondiale di categoria. Ma fino a un certo punto: “Tra la malattia, gli interventi e il trauma sono stata ferma quasi tre anni – ha spiegato – Negli ultimi mesi ho fatto davvero il minimo per poter arrivare a Londra in una condizione decente, ma posso migliorare tantissimo”. Parole che aprono prospettive sorprendenti. Assunta lancia fino a 16,74 metri, il suo primato è di 19,20. Risale al 2002, ma non è lontanissimo. E ancor più vicina è la misura di 18.55, il minimo di qualificazione olimpica. “Io lo sento, ce l’ho nelle braccia, mi serve solo un po’ di allenamento serio”.
E allora Assunta da Napoli rilancia. All’orizzonte, fra quattro anni, ci sono i Giochi di Rio de Janeiro. Quelli Paralimpici, certo, per una grande doppietta. Ma anche quelli Olimpici, per un ritorno da fiaba a lieto fine. “Sarebbe bellissimo”, sussurra. E sorride. Usa il condizionale, non vuole promettere nulla. Ma ci crede.