Altroconsumo guida le richieste di risarcimento per le spese di conto corrente giudicate illegittime. Ma lamenta i limiti della legge italiana: "I potenziali danneggiati sono 400mila, ma devono aderire singolarmente. In Usa la causa vale automaticamente per tutti"
Al Tribunale di Torino è tutto pronto. Anche la cancelleria si è dotata di un apposito sistema informatico per far fronte all’eventuale valanga di richieste che potrebbero piovere sull’ufficio a partire dal primo ottobre, quando inizierà la raccolta di adesioni per la class action avviata contro Intesa San Paolo. Si tratta della prima azione collettiva in Italia contro un gruppo bancario. È nata nel 2011 su iniziativa di tre correntisti e dell’associazione dei consumatori Altroconsumo, ma a partire dal prossimo mese, fino al 21 gennaio 2013, potrà raccogliere le adesioni di tutti gli altri clienti interessati.
“A oggi cinquecento utenti hanno partecipato attivamente sostenendo la campagna dell’associazione di consumatori” fanno sapere da Altroconsumo, ma le cifre potrebbero presto lievitare. “Stando alle dichiarazioni rilasciate in tribunale da un rappresentante di Intesa San Paolo – racconta l’avvocato Marino Bin, legale dei consumatori – i clienti coinvolti dalle commissioni oggetto della causa sarebbero addirittura 400mila”.
Il motivo dell’azione risiede in alcune spese di conto applicate ai clienti della banca ma giudicate illegittime dall’associazione. “Quello che chiediamo è il risarcimento dei costi illeciti fatti pagare ai correntisti di Intesa Sanpaolo – si legge sul sito di Altroconsumo – si tratta di spese che sono state introdotte dalla banca in sostituzione delle commissioni di massimo scoperto abolite per legge nel 2009”. Soldi sottratti irregolarmente, secondo l’accusa, da restituire con gli interessi ai legittimi proprietari.
Il processo costituirà un’esperienza pilota nel difficile mondo della class action all’italiana, troppo spesso ostaggio di burocrazia e cavilli. E la causa contro Intesa San Paolo, sul punto, ha già segnato un traguardo storico, superando lo scoglio del giudizio di ammissibilità previsto dalla legge, che di solito affossa quasi tutte le analoghe citazioni in giudizio. Lo ha fatto con un ricorso in appello che esattamente un anno fa ha ribaltato la decisione del Tribunale di primo grado. E dopo che lo scorso aprile sono state definitivamente respinte le obiezioni mosse dai legali del gruppo bancario, la class action ha potuto infine approdare al processo.
Adesso dovrà confrontarsi con la questione delle adesioni. È infatti realmente difficile, in Italia, raggiungere i potenziali interessati di un’azione giudiziaria collettiva: “Noi abbiamo fatto delle proposte innovative, ma il Tribunale ha scelto di perseguire la via classica della pubblicità legale sui giornali”, spiega l’avvocato Bin. Il problema si pone perché “in Italia il sistema di basa sul modello dell’opt-in, cioè dell’adesione volontaria, anziché sull’opt-out, come negli Stati Uniti, dove l’azione di classe vale per tutti coloro che si trovano nella stessa situazione, automaticamente”. Solo chi non vuole partecipare è tenuto a comunicare la sua uscita dalla causa. Questo meccanismo, negli Usa, prevede anche l’immediato accesso ai dati dell’azienda citata in giudizio, che viene obbligata dal giudice a renderli disponibili.
La legge introdotta nel 2009 nel nostro paese, al contrario, non costringe il gruppo bancario Intesa San Paolo a fornire i dati sui correntisti coinvolti, perché possano essere avvisati dell’esistenza della class action, né a informarli direttamente. I consumatori dovranno accontentarsi degli annunci legali pubblicati sui quotidiani. Con il rischio anche di risultati paradossali, se le adesioni non risultassero adeguate: “Una causa iniziata da tre consumatori e appoggiata da pochi altri non è più una class action: è un’azione individuale e per certi versi anche stupida. Perché i tre interessati avrebbero potuto difendere diversamente i loro diritti e non affrontare tutte le scocciature che invece questa legge prevede”.
La speranza per i promotori è comunque quella di fare di questo processo un vero e proprio laboratorio nazionale, in grado di restituire efficacia ad uno strumento che dovrebbe tutelare i più deboli ma che trova ancora scarsa applicazione.
“L’azione di classe nasce per tutelare i diritti dei consumatori che da soli non sono in grado di difendersi. Chi intraprenderebbe un’azione legale contro un colosso bancario per poche centinaia di euro? Il suo campo di applicazione non sono le grandi cifre ma i piccoli diritti che resterebbero altrimenti schiacciati dal potere economico dell’altra parte in causa, che continua in questo modo a farla franca”. Conclude Bin: “Potenziare la class action vorrebbe dire, in buona sostanza, rendere più efficace uno strumento utile alla democrazia”. L’appuntamento è per l’udienza del prossimo 14 marzo, di fronte al giudice relatore Rossana Zappasodi. In quella data si farà il conteggio delle adesioni e si getteranno le basi per le successive fasi del processo.