Visto che è di Firenze, forse sarebbe meglio paragonarlo a Savonarola più che a Beppe Grillo. Ma si sa, di questi tempi, in campo democratico il “Male” lo incarna bene l’ex comico genovese (“fascista”) e chi lo segue. Ed allora, ecco Matteo Renzi ergersi al nemico da distruggere. O, forse, all’icona delle spaccature interne al Pd. Reduce da una trasferta oltreoceano, dove ha preso appunti dai veri democratici su come ottenere – e soprattutto – conservare il consenso, Matteo Renzi, sindaco di Firenze e autoproclamatosi rottamatore della nomenclatura democrat che non vuole cedere il passo, rischia di vincere le primarie del Pd suo malgrado. Anche se forse, alla fine, le perderà. A dargli una mano sono i suoi stessi detrattori, tutti interni al partito, impegnati in una guerra del tutti contro tutti che, nella sua ultima versione, è declinata nella demonizzazione del giovane Renzo. Sono lontani i tempi in cui, nel vecchio Pci, i nemici dell’ortodossia non erano nemmeno citati, finendo automaticamente con lo scomparire. Oggi si eccede in senso opposto, con gli ex comunisti che usano strumentalmente la democrazia interna, e gli ex democristiani che non sanno più lavare i panni sporchi in famiglia. Così, quotidianamente, il gotha del centrosinistra se le dà di santa ragione, dalle colonne dei quotidiani nazionali, lanciando dardi incrociati e trasversali che, in nome della crociata contro Renzi, colpiscono nemici ed ex amici. Il panorama è pessimo.
Lui, Renzi dicono che abbia lanciato una campagna “rivolta non alla costruzione di una prospettiva di governo, ma esclusivamente contro il gruppo dirigente del Pd e tutti i potenziali alleati di governo del centrosinistra”. Lo dice Massimo D’Alema (“Corriere della sera”), amareggiato dal fatto che l’ex mattatore della Ruota della Fortuna sia “sostenuto soprattutto da quelli che il Pd al governo non lo vogliono”. E la palla è stata davvero troppo gustosa per non essere colta. Il colpo di Matteo da Firenze è stato duro: “Rispetto tantissimo gli anziani: se non ci fossero i nonni non ci sarebbe la famiglia” (“La Repubblica”). Nel mezzo, è riuscito pure a ficcarsi il capogruppo a Montecitorio Dario Franceschini che ha provato a fare il terzista: “Nella prossima legislatura ci sarà una nuova generazione di dirigenti e un giovane nuovo leader”.
Un bel delirio. Dopo che ad insultare Renzi si erano alternati Rosy Bindi, lo stesso Bersani e – in buona sostanza – il gotha del Nazareno, quello che di mollare le proprie rendite di posizione pare proprio non volerne sapere. Ecco, dunque, che lo scenario si fa cupo. E ammesso che Pier Luigi Bersani arrivi davvero a Palazzo Chigi, di sicuro ci arriverà senza dubbio con un Pd alla mercè di mille correnti. Il problema è che, sin qui, in realtà, la variegata maggioranza che sostiene Bersani, seppur litigiosa, non si è mai confrontata con un opposizione interna, fatto salvo la sparuta pattuglia prodiana guidata da Arturo Parisi che oggi, sempre in nome di Renzi, chiedeva al segretario “se la sua discesa in campo fosse in prima persona o a nome del gruppo dirigente”. Gruppo dirigente che, alla resa dei conti, trova sempre la maniera di ricompattarsi per garantire se stesso. Così, in un battibaleno.
Esempi? Da acerrimo nemico di Walter Veltroni, D’Alema ne diventa il principale estimatore in campo letterario, e Rosy Bondi diventa un tutt’uno con Giuseppe Fioroni come con Enrico Letta, quando si tratta di criticare l’unica reale opposizione, per quanto dai contenuti assai incerti: quella di Renzi. Sarà forse per questo che, quando l’astro del sindaco di Firenze sembrava già tramontato e il nemico sembrava essere soltanto la minoranza veltroniana, Bersani si è fatto prendere dalla smania di un’investitura non necessaria ma che, a suo avviso, lo mettesse al riparo da attacchi futuri, imbarcandosi nell’epopea delle primarie. Sognava un voto bulgaro, e rischia di uscirne vincitore a metà. Di certo non sarà il segretario di tutti, e in compenso dovrà farsi carico delle varie anime del partito che lo porteranno alla vittoria. E che, in questo confronto, pur non pesandosi, poi presenteranno il conto. Patto di sindacato o meno, la vecchia nomenclatura è tutta con lui, per garantirsi la rielezione e, perché no, un posto nell’esecutivo, se ci si arriva.
Renzi, invece, corre da solo e rischia di aggiudicarsi pure un bel 30%. Che non dovrà spartire con nessuno, non con Nichi Vendola (se il governatore dovesse decidere di farsi da parte), né con i mille capobastone giunti in soccorso del carro del segretario. Così, a livello locale, si assiste a dinamiche inedite: si racconta di militanti Cgil pronti a schierarsi con Renzi, come lettiani che sostengono il segretario vincente ma anche il sindaco oppositore. Una Babele in cui cercano di mantenere un minimo di autonomia i cosiddetti giovani turchi, da Matteo Orfini a Stefano Fassina che a Renzi contestano il monopolio della rottamazione senza idee, laddove loro pongono sul piatto della nomenclatura non solamente il rinnovamento generazionale, ma anche questioni più squisitamente politiche: a cominciare dalla chiusura della stagione montiana che invece Letta e i veltroniani vogliono continuare, D’Alema osanna come vittoria del Pd (con buona pace di chi non riesce a fare la spesa), e che il segretario difende a tratti. In attesa delle primarie che non si sa quando si faranno, né con quali regole. Dettagli, evidentemente, visto che l’unica certezza democrat per ora è Renzi. Il Male.