Il mio viaggio ‘nell’estremo occidente’ continua. Dopo aver scritto di El Paso, ho lasciato il Texas per approdare in California. Ed è proprio dall’ufficio che mi è stato messo a disposizione all’università di Berkeley che scrivo oggi. Il caso ha voluto che abbia potuto seguire in America entrambe le conventions: quella repubblicana in Texas, stato ultimamente parecchio conservatore al voto, e quella democratica a San Francisco, una delle roccaforti dei liberal americani.
Sarebbe troppo facile per me, da visitatore progressista, sparare a zero sui repubblicani. Non vi nascondo che ho dovuto fare uno sforzo non indifferente per ascoltare tutti gli interventi che hanno preceduto Mitt Romney. Tutta la convention repubblicana è stata caratterizzata dalla volontà di mostrare ‘il lato umano di Mitt’ (quello di buon pastore mormone, quello di padre di famiglia, quello di membro attivo di una comunità nonostante i suoi impegni pressanti), in contrapposizione a quello di uomo d’affari senza scrupoli emerso negli ultimi mesi su tutti i mezzi di comunicazione.
Nessuna ideologia, né tantomeno proposte politiche di ampio respiro; solo la voglia di richiamare l’America ai suoi ‘valori originari’. O almeno, richiamarla ai valori della vulgata repubblicana del momento: ‘l’amore per la famiglia e per il lavoro duro che hanno reso gli Stati Uniti il paese più prospero del mondo’. Quello che mi ha colpito è lo stridente contrasto tra la retorica e la proposta politica. Come si fa a costruire una comunità più coesa solo riducendo le tasse? Da un lato si manifesta la voglia di tradizione e famiglia e dall’altro si propone, con la riduzione delle tasse, una maggiore spinta verso individualismo e il consumo. Come finanziare questa riduzione delle tasse (visto il debito crescente) e come sostenere un maggiore consumo a livello ambientale e sociale, sono ovviamente questioni che non sembrano preoccupare i repubblicani.
Dall’altra parte, c’e’ un partito democratico molto diverso da quello di quattro anni fa. Barack Obama ha rimpiazzato lo ‘yes we can’ che aveva fatto esaltare tanti americani (ma anche europei, incluso il sottoscritto) con una ‘retorica pubblica’ volta alla responsabilità. Il presidente, non più nella posizione di sfidante, cerca di incarnare la figura dello statista navigato, lo statista che non nasconde i problemi dell’America e che si mette a servizio della nazione per superarli. Preoccupato per le difficoltà che si staglieranno nel suo prossimo mandato, ma allo stesso tempo, orgoglioso del suo popolo e della sua capacità di trasformarsi e trasformare ogni ostacolo in opportunità.
Ai miei occhi e quelli di molti altri osservatori però, al di là della retorica pubblica e dei lustrini delle conventions, l’America sembra sempre più stanca, isolata e ripiegata su stessa. Il vuoto politico è ancora peggiore di quello che ravvisiamo in Europa. C’e’ la necessità di idee nuove, che vadano al di là, sia del credo conservatore nella famiglia e nella riduzione del ruolo dello stato, sia del richiamo democratico ad un ‘capitalismo responsabile’ che non vuole rimodellare le relazioni sociali ma solo mantenere le disuguaglianze ad un livello accettabile. Si respirano, palpabili nell’area, nonostante l’ottimismo di facciata, i segni del declino. Un declino che sembra ancora più netto e deciso di quello del nostro continente.