Arriva con mezz’ora di ritardo senza perdere il suo charme. Camicia bianca ben stirata, jeans e scarpe lucide, Matteo Renzi ha perso una trentina di minuti perché ha appena visitato le zone terremotate: “Ero a Finale Emilia a firmare un protocollo d’intesa con il sindaco Ferioli”.

Ma al candidato delle primarie, che sta facendo tremare le vene nei polsi ai bersaniani del Pd, tutto viene concesso. Più di quattrocento le persone che lo attendono nella sala dibattiti. In prima fila i renziani di ferro come Matteo Richetti, Giuseppe Paruolo, l’ex verde Gianluca Borghi e qualche giovane leva con studi americani come Filippo Taddei e qualche infiltrato da destra come l’ex guazzalochiano Niccolò Rocco di Torrepadula.

Ed è un tripudio di applausi, grida, sorrisi. Renzi sta in piedi sul palco e comincia a snocciolare quello che non va in Italia, così con molta genericità come se fosse al bar: la burocrazia, le tasse, i vecchi politici da rottamare. Ma verrà il tempo dei programmi, “le soluzioni a breve quando comincerà la campagna per le primarie”. Per ora solo una presentazione che è programmaticamente uno show.

Matteo Renzi se la gioca non tanto su come cambiare il Pd e l’Italia, quanto su come risultare simpatico agli elettori democratici. Il suo monologo ininterrotto dura non più di trenta minuti. Nessuno sbilanciamento partitico o ideologico, se non per un fugace elogio a Prodi e un attacco a Vendola (“non mi dia lezioni, lui nel ’98 mandò a casa Prodi”) e un kennedysmo veltroniano nonostante le critiche a Veltroni: “I progressisti devono recuperare un orizzonte positivo”.

Il sindaco fiorentino non fa un comizio e nemmeno presenta il suo libro, semplicemente mette in scena qualcosa tra lo show alla Grillo (“Tre mandati in Parlamento poi a casa” – e la folla va in delirio come agli spettacoli del blogger genovese) e la commedia all’italiana (Non ci resta che piangere proiettato sullo schermo alle sue spalle), tutto teso ad una mimetica voglia di allegria e di speranza nel sogno americano (si sprecano i riferimenti agli Usa, tra cui uno spezzone de La ricerca della felicità con Will Smith) che contagia perfino i bersaniani più ferrei rimasti ai bordi dell’arena. L’apoteosi di questo movimento andante con brio è quando proietta una foto della sonda atterrata su Marte dicendo che è costata meno dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e la platea se la ride come nemmeno di fronte a Totò.

Impossibile estorcergli quattro parole in più, improbabile si sbilanci troppo in anticipo rispetto  all’inizio delle primarie: “Passera lo vede nel futuro governo del Pd?”, “Non voglio fare il gioco dei giornalisti col totonomine. Monti ha fatto un buon lavoro e anche Passera. Stop”.

Anche il fair play è la parola d’ordine di questo copione paratelevisivo scritto nei minimi particolari: “Stimo Bersani, da dove è arrivato ha avuto coraggio a candidarsi alle primarie. Semmai mi fanno paura i politici che dicono una cosa davanti alle telecamere e poco dopo tutto il contrario fuori onda”.

Infine spazio agli autografi, alle strette di mano e agli abbracci che durano almeno quanto lo show sul palco. “Matteo, io sono uno di destra, ma vado alle primarie del Pd e ti voto”, “Bene, ma poi vai a votare il Pd”, “Beh vediamo”. E Renzi tranquillo, fa ordinare dal proprio guardaspalle una nuova camicia bianca fresca di bucato. Quella che ha addosso è madida di sudore. L’immagine, per ora, se non è tutto, è almeno l’essenziale.

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