Sorpresa! Pare che il governo abbia qualche difficoltà a nominare il futuro capo dell’Agenzia per l’Agenda Digitale. In un paese civile sarebbe bastata una nomina politica (ossia con una chiara assunzione di responsabilità politica), ma da noi, si sa, certe cose non sono mai andate di moda, e così il governo Monti ha deciso che il prossimo capo dell’Agenzia debba essere selezionato attraverso una gara pubblica. Lo rivela Massimo Sideri in un articolo, comparso qualche giorno fa sul Corriere della Sera, in cui vengono anche delineati i principali requisiti che dovrebbero essere soddisfatti dai candidati.
In realtà, Sideri arriva a far intendere che i due principali requisiti – una solida presenza manageriale in grandi aziende del settore, combinata con importanti esperienze nella Pubblica Amministrazione – siano stati individuati appositamente per far posto a Stefano Parisi, ex amministratore delegato di Fastweb, oggi Presidente di Confindustria Digitale.
Ora, come già scritto tempo addietro su questo medesimo blog, rimarremo grati a Monti in eterno per aver salvato questo disgraziato Paese dal baratro, per non parlare del ruolo che il Presidente del Consiglio sta giocando nella risoluzione della crisi dell’eurozona. Tuttavia, occorre riconoscere che quando si tratta di materie digitali, il nostro attuale governo si smarrisce con una certa facilità: prima la scelta abortita di nominare un sottosegretario all’agenda digitale (mai arrivato), poi la mancata nomina di un professionista della rete tra i commissari dell’Agcom (dalla rete chiedevano addirittura di metterne uno a capo dell’autorità), per non parlare del continuo balletto tra ministeri attorno al tanto atteso decreto DigItalia con le misure che dovrebbero finalmente dare a questo Paese uno stralcio di agenda digitale (in ritardo decennale rispetto a tutti gli altri maggiori paesi avanzati). Ora, mancava solo quest’altro pasticcio con la nomina del capo dell’Agenzia per l’Agenda Digitale.
Sarà per l’età media della compagine governativa (piuttosto avanzata), o sarà perché nessuno tra i ministri ha una qualche reale esperienza nel mondo dei servizi digitali, tant’è che il governo sembra veramente arrancare su questi temi. Del resto, se confermata, l’idea stessa di nominare Stefano Parisi lascia non pochi dubbi. Per carità, stiamo parlando di un professionista con una lunga esperienza nel settore dell’information technology (It) e con una consolidata presenza tra i gangli del potere delle associazioni e delle grandi imprese di telecomunicazioni. O forse proprio per questo. Le telecomunicazioni stanno a Internet e all’economia digitale, un po’ come gli impianti idrici di irrigazione stanno alle nostre abitudini alimentari: sono infrastrutture necessarie ma rappresentano appena una parte, neppure la più rilevante, dell’intero ecosistema. Detto in altre parole, il superamento del digital divide o la realizzazione di reti ultra-veloci sono senz’altro questioni importanti ma di soluzione relativamente facile rispetto alle vere sfide che deve affrontare il Paese: dall’alfabetizzazione digitale, allo sviluppo di un ecosistema di imprese innovative (startup), dalla diffusione dell’economia digitale, alla razionalizzazione dell’offerta di servizi della Pubblica Amministrazione, dalla formazione di giovani competenze professionali di settore, alla semplificazione normativa dalla giungla di vincoli e sanzioni che frustrano continuamente l’introduzione di soluzioni innovative per risolvere i problemi e dare nuove opportunità alle persone e alle imprese.
La sensazione è che il governo Monti non abbia realmente idea del percorso che l’Italia debba affrontare per mettersi al passo con lo sviluppo digitale del resto dei paesi avanzati (di qualche giorno fa la notizia che siamo appena al 23° posto del Web Index, la classifica dei paesi più digitalizzati). E, allora, per dare un contributo costruttivo, ci permettiamo di indicare quei pochi requisiti che, a nostro avviso, dovrebbero informare il bando (se proprio ad un bando si debba ricorrere).
In primo luogo, assicuriamoci di individuare una persona che provenga realmente dal mondo della rete. Il tempo dei grandi tecnici It è finito. Hanno già dato a questo paese, senza ottenere nulla. Servono invece profili che conoscano il lessico della cultura digitale, che siano riconosciuti come appartenenti alla comunità della rete, che sappiano comprendere i problemi reali incontrati da cittadini e imprese, e che abbiano dimostrato di saper alimentare le innovazioni dal basso, attraverso l’inclusione e la partecipazione. Serve una persona, insomma, che non si limiti a chiacchierare di innovazione digitale ma che la sappia fare, e anche usare. Evitiamo, per favore, quei presunti esperti digitali che si fanno mandare le mail dalle segretarie o che non hanno mai fatto una chiamata con Skype.
Ben venga una forte esperienza nelle grandi imprese di settore o nella pubblica amministrazione, ma a patto che queste esperienze provino l’effettiva capacità di fare innovazione digitale su scala sistemica (non quella a chiacchiere dei convegni di IT che infestano questo Paese). Insomma, l’esperienza sia valutata per la provata abilità di saper usare le tecnologie digitali per generare impatto (misurabile) su cittadini e imprese a livello nazionale o internazionale.
Al tempo stesso, è importante che il candidato abbia anche una vera esperienza di startup. Le startup sono il cuore pulsante dell’innovazione digitale. Il resto è solo innovazione a chiacchiere che di sostanziale ha solo i contratti milionari con la Pubblica Amministrazione o delle concessioni governative. L’esperienza di startup tornerà utile al vincitore del bando anche perché il compito immane che lo attende potrà avere successo solamente se il suo lavoro sarà inteso come l’avvio di un’impresa innovativa, appunto una startup (anche se in ambito pubblico). Se ricadiamo nelle solite pastoie burocratiche della pubblica amministrazione o nella grande abbuffata di interessi, in cui, storicamente, è sempre annegata qualunque iniziativa volta ad innovare il sistema , allora tanto meglio lasciar perdere.
Infine, assicuriamoci che il candidato abbia un minimo di esperienza internazionale di rilievo ed evitiamo come la peste coloro che vendono idee originali che nessun altro paese ha ancora sperimentato. L’Italia si sta ancora leccando le ferite per le fantomatiche fughe in avanti fatte con il digitale terrestre e altre portentose innovazioni, servite solo ad ingrassare i contratti delle società di consulenza. La verità è che siamo così in ritardo che dobbiamo solo imparare a copiare velocemente quello che altri hanno già fatto bene (impariamo dai cinesi che, a forza di copiare, stanno diventando la più grande potenza industriale al mondo). Intendiamoci, quando parlo di esperienza internazionale, non mi riferisco a figure evanescenti come i lobbysti o i funzionari di Bruxelles, ma a persone che conoscano (e che siano note a) chi l’innovazione la fa veramente in luoghi come San Francisco, New York, Londra, Berlino, Shangai e nelle altre grandi aree urbane al centro della rivoluzione digitale.
Per chiudere, evitiamo i tanti “gattopardi” dell’innovazione che da anni tengono al palo questo Paese spacciandosi per grandi cavalieri digitali. Meglio allora che il governo non faccia nulla. L’avanzata della cultura digitale è inesorabile e non si fa fermare certo da qualche burocrate. Meglio di “cambiare tutto perché nulla cambi” è “cambiare nulla perché tutto cambi”.