E ora, ora che il mare le ha consegnato un altro cadavere da sistemare (“ho solo la fossa comune usata dopo il naufragio di marzo”), i buoni cittadini si stringano intorno a lei. E le chiedano scusa per il ritardo. Perché d’estate si dorme e l’informazione ha l’occhio della talpa, ma intanto qualcuno sta da solo in mezzo alla tempesta per avere detto parole di pura umanità. Il campo di battaglia è Lampedusa. Destino di un’isola che la storia sta trasformando in segno di contraddizioni acide e brutali. Destino di chi ha scelto di governarla senza brandire una mazza da baseball.
Si chiama Giuseppina (Giusi) Maria Nicolini la nuova sindaco dell’isola degli sbarchi. Le è bastato prendere il 26 per cento dei voti a maggio. “Un pezzo del Pd e quel che c’è di società civile nell’isola”, uniti intorno a lei, già direttrice per Legambiente della riserva naturale di Lampedusa. Una percentuale fragile per chi si è trovato davanti agli effetti mica tanto collaterali dell’emergenza. “Scempio del territorio, dell’ambiente e della legalità. Quando con la scorsa amministrazione è arrivata in Comune la Guardia di finanza, avevano già fatto sparire le carte. Cantieri aperti senza progetti. Esercizi abusivi anche sulle spiagge, con autorizzazioni illegittime. E oggi imprese, specie agrigentine, che si vedono cambiare film sotto il naso. Consulenze che sfumano”.
Il clima perfetto per avvertimenti obliqui, arroganti, “a ottobre incominciano col fuoco”. Per strada (“hai reso la mia vita impossibile” ), al bar, in municipio. E in più la sommossa che le è montata contro dopo avere commesso il peccato mortale di quest’epoca di furori tangheri. È stato il 20 agosto. Quel giorno Giusi, volto incavato e profilo da Magna Grecia, ha rilasciato un’intervista all’AdnKronos per commentare la storia di Samia Yusuf Omar, l’atleta somala che dopo aver partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008 ha trovato la morte a bordo di una carretta del mare, partita dalla Libia e diretta in Italia. Una storia che ha commosso chiunque non abbia il cuore di una scarpa. Ha detto quel giorno Giusi: “I dati ufficiali sui naufragi parlano di circa 6mila persone morte, ma sappiamo bene, come dimostra la storia di Samia, che le vittime dei viaggi della speranza sono molte di più. [….] Dico allora che noi ci auguriamo che gli sbarchi ci siano, che queste persone riescano ad approdare sulle nostre coste, che arrivino vivi”. E ha aggiunto: “In questi anni ho parlato con mogli e madri tunisine disperate che cercano i loro congiunti di cui non hanno più notizie. Lampedusa non ha paura degli sbarchi […] Per noi non si tratta di numeri, ma di persone. Li vediamo quando arrivano, entriamo in contatto con loro, con le loro speranze e le loro paure”.
Ecco. Non ha minacciato di cannoneggiarli dal porto, non ha dichiarato, come il predecessore, di tenere la mazza da baseball in ufficio. Ha respinto con orrore l’idea del Mediterraneo cimitero sterminato. Ha detto quello che sente l’Italia non ancora ingaglioffita. Si può pensare una cosa o l’altra sulle politiche migratorie. Ma la reazione che le è arrivata addosso ha il fiato del razzismo da bettola, altro che la poesia da taverna di Lucio Dalla. È finita nella macelleria telematica. Dileggiata per il suo fisico. Se una foto la ritrae elegantemente sportiva, donna neocinquantenne dal tocco sbarazzino, ecco l’accusa: è “una foto ritoccata, dove la nostra indossa accessori tipicamente radical, con cui potrà accompagnare le proprie chiccose dichiarazioni di morte della genia italica e in favore dell’indesiderato (da noi) immigrato sfruttatore”. Così subito arriva in rete la foto più ingenerosa: “Hai fatto bene a mettere in evidenza questa befana mentalmente deviata […] uno scatto più realistico, che risalta certi lineamenti che a me paiono… inquietanti, meglio accordantisi nella loro secca evidenza alla realtà di simili dichiarazioni malsane; un viso di morte”.
Pillole di opinione, avvisaglia di un tam tam che in poco tempo ne fa “la befana di Lampedusa”, con la stessa faccia degli ebrei (ed ecco, associata, la foto di Fiamma Nirenstein), “feccia radical” o “buttanazza veterofemminista”. La frase del peccato – “speriamo che gli sbarchi ci siano” – diventa il tormentone che spiana la strada a minacce e ingiurie senza fine, all’accusa di attentare all’equilibrio etnico e di partecipare al grande gioco di togliere preziosi posti di lavoro agli italiani per darli allo straniero. Alleata degli scafisti, ma anche dei futuri “parassiti e criminali”. E degli stupratori, naturalmente. Lampedusa isola di accoglienza. Lampedusa isola di frontiera. Geografica e culturale.
Giusi è in una tenaglia. “Problemi ovunque, dal cimitero alle fogne a mare. Ora bisogna impedire che si saldino il razzista, lo speculatore, il mafioso, l’abusivo, l’architetto a cui non pagherò i lavori”. Ha preparato una denuncia al Tribunale di Agrigento. Per difendersi. E soprattutto contro l’istigazione all’odio razziale. Ma davvero devono essere le carte dei tribunali a proteggere una donna sindaco che, di fronte ai cadaveri galleggianti o inghiottiti dalle onde, ha detto “speriamo che gli sbarchi ci siano”? Mollare anche lei in mezzo al mare, ai confini estremi della nazione, o adottarla a simbolo di un’Italia più civile?
Il Fatto 9 settembre 2012