La persona malata, nei secoli, è stata sempre curata a casa e quindi nel luogo di vita. Con lo sviluppo della modernità, della società industriale, della medicina scientifica e dei sistemi di welfare, la cura in grande misura si separa dal luogo di vita. A casa del malato resta una cura generica. Da questa separazione nascono ospedali di tutti i tipi, tante specialità, poliambulatori, servizi di vario genere, cioè l’attuale sistema sanitario.
Questa separazione, che ha permesso alla medicina di svilupparsi scientificamente e di risolvere una gamma sempre più ampia di problemi clinici, oggi ha due grossi problemi: di umanizzazione e di costosità, cioè costi etici ed economici molto alti. Per queste ragioni, oggi nella post-modernità, dovremmo tornare a curare la persona principalmente a casa sua e nel luogo di vita. Se prima era il malato che andava nelle case della scienza ora è la scienza che deve andare nelle case del malato. Almeno fino a quando è possibile.
Negli ultimi trenta anni si sono tentate, ma senza grandi risultati, delle soluzioni integrative: il sociale e il sanitario, il territorio e l’ospedale, l’assistenza domiciliare e la non autosufficenza. Tentativi che, con pochissime eccezioni, si sono rivelati un modo per razionalizzare e confermare le storiche separazioni, ma non per superarle. Se vogliamo che spesa e diritti non siano conflittuali dobbiamo curare quando possibile la persona a casa sua e nel suo luogo di vita. La casa del malato, il distretto di comunità (leggi post precedente) e il resto delle cure debbono, adeguatamente interconnessi, costituire un nuovo sistema assistenziale. Quali implicazioni? Si tratta di:
1) decentrare la maggior quantità di tecnologie diagnostiche nel luogo di vita;
2) ripensare radicalmente la medicina generale che oggi non può più essere “generalista” come una volta;
3) smetterla di gerarchizzare le cure in primarie, specialistiche e ospedaliere;
4) parlare di percorsi terapeutici evolutivi cioè di cure che iniziano che continuano e che si concludono in una continuità.
In questa ottica è uno sbaglio chiudere i piccoli ospedali con mille pretesti efficientistici. Non si può privare il luogo di vita delle sue proprie e diverse necessità ospedaliere per cui dobbiamo pensare ad una spedalizzazione domiciliare estesa e, quando serve, ad una spedalizzazione poliambulatoriale dotata di pochi posti letto (day hospital, day surgery ecc) e a piccoli ospedali ben organizzati, interconnessi, a loro volta, con un efficiente sistema di emergenza e con pochi ospedali ad alta specialità.
Travasare il bisogno di cure delle persone nel grande ospedale significa accentuare la separazione tra luogo di vita e cura, rendere impossibile qualsiasi tipo di integrazione tra servizi e, da ultimo, sovraccaricare gli ospedali delle città fino a farli scoppiare.
Il vero problema etico ed economico in realtà non sono i piccoli ospedali (naturalmente se bene organizzati) ma quelli grandi e i loro vertiginosi costi, il loro eccessivo numero, la loro dislocazione disarmonica, e le tante sovrapposizioni. I piccoli ospedali, anche quelli che funzionano, sono sacrificati in realtà per salvaguardare i grandi aggregati ospedalieri e gli immensi interessi che contengono.
Dobbiamo parlare di rete ospedaliera intendendo per rete un sistema interconnesso che va dalla casa del malato all’ospedale ad alta tecnologia. Tutti i letti nei quali dormiamo quando serve debbono essere teoricamente tutti assistibili da qualsiasi specialità. Quelli non assistibili si integrano con ben calcolati letti ospedalieri. Questo oggi è possibile anche grazie all’informatica (information tecnology) in grado di collegare la casa del malato, il luogo di vita con qualsiasi ospedale nel mondo.
Per tutto ciò servono dei ripensamenti, in particolare quelli che riguardano tutte le professionalità in gioco. Fermarsi a riorganizzare i servizi senza ripensare i contenuti professionali è il limite più grave delle recenti proposte sull’assistenza territoriale (decreto Balduzzi ).
Stringiamo sull’idea:
1) riconvertiamo l’organizzazione sanitaria che abbiamo orientandola interamente alla casa del malato e al luogo di vita;
2) assumiamo il cittadino e la comunità, come colui che si prende cura di se stesso;
3) cambiamo genere di organizzazione superando le storiche divisione tra i servizi.
Risparmieremmo un sacco di soldi migliorando notevolmente la cura.