Non sono ancora passate 48 ore dalla visione di questo straordinario dipinto di Sonia Ros, La dea bendata, (cm 205 x 260), esposto nel suo particolarissimo studio di Vittorio Veneto, eppure l’emozione che ho provato è stata così forte da risvegliare ricordi mai completamente rimossi. Ho pensato ai tre lutti che mi hanno colpito e che ho subito senza poter essere presente al momento del distacco, quella di mia madre e delle mie due amatissime gattine, Carlotta e Camilla. Ha perfettamente ragione Marcel Proust quando, nella Ricerca del tempo perduto, sottolinea come non si muoia una sola volta anche nelle morti per così dire ‘improvvise’. Si muore tutte le volte che si perde in maniera irreparabile qualcuno o qualcosa cui eravamo profondamente legati. Allora si stacca per sempre da noi una parte rilevante, che non potrà mai più rivivere, e cominciamo a morire. E’ la prima nostra morte; quando la sequenza di queste morti supera ogni limite concepibile, allora moriamo anche noi in maniera definitiva.
E’ avvenuto per tre volte, nella tarda mattinata del 25 luglio 2001, quando ho perduto mia madre, nel tardo pomeriggio del 10 gennaio 2006, quando ho perduto la mia Carlotta, e, infine, il primo pomeriggio del 28 settembre 2011, quando è scomparsa la mia Camilla. In tutte e tre le circostanze la dea bendata, umiliando il mio volontarismo, si è presa gioco di me, dando in fondo pienamente ragione alla magistrale interpretazione, fornita da E. Th. A Hoffmann, della Quinta di Beethoven, in particolare degli accordi conclusivi: “Questi ultimi accordi hanno l’effetto di un incendio che si credeva domato, e che ora divampa di nuovo, con ampie lingue di fuoco”. In altri termini, quando l’uomo, il soggetto crede di avere in pugno la dea bendata, proprio in quello stesso istante la contesa si riapre e il destino si prende una rivincita clamorosa, magari con l’ausilio dell’inerzia, dell’approssimazione, del sostanziale cinismo e della mancanza di ethos, da cui sono affetti quasi tutti gli esseri umani.
So di aver messo sullo stesso piano la morte di mia madre e quella delle due mie gattine, l’ho fatto consapevolmente perché ritengo che la superiorità dell’uomo sul gatto, costruita sul primato del linguaggio verbale, sia del tutto insensata. Sta esattamente sullo stesso piano di chi, per assurdo, argomentasse che un brano musicale esclusivamente strumentale fosse da considerarsi privo di qualsiasi valore. Forse la Fantasia in do maggiore op. 17 di Robert Schumann o la Ballata in sol minore n. 1 op. 23 di Frédéric Chopin non hanno alcun valore o forse, in maniera plausibile, ne presumono uno ancora maggiore, trasferendo sul piano puramente strumentale, nel primo caso la tecnica della ‘citazione segreta’ e , nel secondo, quello della ballata, ossia quello di un’antica narrazione in versi con ritornello? Lo stesso si può affermare con convinzione per il segreto degli occhi delle mie Carlotta e Camilla, quasi esistesse un’affinità elettiva profonda tra quanto presunto dal loro sguardo e ciò che quella musica, nonostante tutto, riusciva ad esprimere.
La dea bendata riesce a comunicare fino in fondo questa dimensione della ‘comunanza mortale’ che attraversa in eguale misura, ciecamente, il destino degli uomini, quello degli animali, delle piante, sollecitando la ‘domanda’ filosofica a rimettersi in discussione e a porre con serenità il problema dello ‘stare accanto’, non solo all’uomo, ma a tutti gli altri esseri viventi.