Ventidue anni di giustizia mancata. Un tempo infinito, insopportabile, reso ancora più pesante dai tanti dubbi che hanno accompagnato dieci anni d’inchiesta sulla scomparsa di Davide Cervia, tecnico di “guerra elettronica” rapito il 12 settembre del 1990, lasciando due figli e la moglie Marisa. Spedito, molto probabilmente, in Libia, come supporto ai nostri sistemi di armamento, dopo essere stato prelevato davanti alla sua casa di Velletri, a quaranta chilometri da Roma. Un caso che si sta riaprendo in questi mesi grazie alla testardaggine della famiglia, pronta a chiedere il risarcimento allo Stato, ritenuto incapace di arrivare ad una verità.
I figli di Davide Cervia, Erika e Daniele – due ventenni ostinati e testardi – hanno citato in giudizio, insieme alla madre Marisa, i ministeri della Difesa e della Giustizia davanti al Tribunale civile di Roma, chiedendo i danni “per la violazione di ciò che può definirsi il diritto alIa verità”. Ai due dicasteri coinvolti, in modo diverso, nel caso la famiglia chiede dunque conto di “quell’insieme di negligenze e depistaggi che hanno accompagnato I’indagine fin dal primo giorno, come riconosciuto dalla stessa Corte di appello”; parole dure, che accompagnano la nota firmata da Alfredo Galasso, già avvocato di parte civile dei famigliari delle vittime di Ustica, autore della citazione in giudizio insieme all’avvocato Licia D’Amico.
Lo scorso anno Erika e Daniele Cervia avevano scritto un appello al presidente Giorgio Napolitano, ma la lettera di risposta – giunta diversi mesi dopo e firmata dall’allora direttore dell’ufficio per gli affari dell’amministrazione della giustizia Loris D’Ambrosio – non ha nemmeno intaccato il muro di omissis: è un sequestro di persona, ammetteva il consigliere della presidenza, i magistrati non hanno mai identificato gli autori, ora non vi rimane che la giustizia civile. Lo Stato, in altre parole, si è tirato indietro ancora una volta.
Il processo si aprirà il 7 dicembre prossimo con un contorno di domande rimaste inevase dopo l’archiviazione del caso arrivata nel 2000: perché la Marina militare fornì dei fogli matricolari falsi, nascondendo la vera specializzazione di Davide? Perché nessuno ha seriamente seguito i tanti indizi che portavano alla Libia di Gheddafi? E, soprattutto, perché per otto anni la Procura di Velletri indagò con “inerzia” – come scrive la Procura Generale di Roma, giustificando il tutto con “la carenza d’organico” – senza mai realmente credere al rapimento, quando due testimoni oculari avevano ricostruito nei dettagli quei momenti concitati del pomeriggio del 12 settembre 1990? E ancora: in base a quali elementi il Sismi scrisse, in una nota rimasta nei fascicoli, che il rapimento era opera di “società o organizzazioni verosimilmente straniere, per interessi commerciali e militari legati alla sua competenza professionale”?
Il profilo di Davide Cervia, come appare dai vari fogli matricolari forniti ai magistrati e alla famiglia, era quello di un tecnico altamente specializzato, un obiettivo importante per i tanti stati del medio oriente interessati ai sistemi di difesa Nato. Inizialmente la Marina militare aveva occultato queste specializzazioni, sostenendo che in fondo Davide era poco più di un marinaio. Fu a quel punto che la famiglia decise, il 12 settembre del 1994, di occupare per una decina di ore le stanze del ministero della Difesa, allora diretto da Cesare Previti, ottenendo, dopo un paio di giorni, il foglio matricolare completo: “sottufficiale di ottime qualità”, “preparazione professionale di rilievo” e, in rilievo, la qualifica di “ETE/GE”, ovvero esperto in guerre elettroniche. Solo nel 1998 la Procura generale di Roma – dopo l’avvocazione del caso – ottenne dal Sismi le note informative, che ipotizzavano il rapimento da parte di stati mediorientali e nordafricani. Per il Sios, i servizi segreti della Marina militare, il caso era in sostanza irrilevante: “i responsabili non ritennero l’episodio più di pertinenza di quell’ufficio”, si legge nella richiesta di archiviazione del fascicolo del 1999.