Veniamo da anni in cui si è diffusa e radicata la leggenda metropolitana secondo la quale la giustizia avrebbe invaso il campo della politica: cosa particolarmente deprecabile non solo per una questione di equilibri istituzionali ma perché i magistrati non sono eletti da nessuno.
Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di un argomento mistificante e falso perché, parafrasando l’efficace espressione di Marco Travaglio, sono i politici a sconfinare troppo spesso nel penale e quindi forse i rapporti tra politici e toghe migliorerebbero se i primi smettessero di commettere illeciti…
Quella che va rifiutata è l’equivalenza per cui se mi occupo di un reato commesso da un politico sto facendo un’indagine politica. Almeno fino a quando la legge resterà uguale per tutti (o aspirerà ad esserlo) e avremo l’obbligo di esercitare l’azione penale ogni volta in cui troviamo prove di illeciti (o quanto meno ci proviamo).
Ma questa sottile e tuttavia chiara demarcazione tra la sfera della politica (dove in forza della legittimazione democratica si operano scelte discrezionali) e giustizia (dove invece si accertano fatti e si applica la legge, sempre che questa rispetti la Costituzione…) può essere varcata anche in altri modi.
L’argomento dei magistrati che scelgono di entrare in politica è scivoloso e non mancano approcci e punti di vista diversi anche all’interno della magistratura. Quello di cui sono convinto è che la possibilità di fare politica non possa essere inibita e che quindi sia assolutamente legittimo che chi ha fatto il giudice o il pm possa decidere di servire il Paese in modo diverso, magari provando a cambiare ciò che ha visto non funzionare mentre lavorava.
Tuttavia credo anche che sia inopportuno anticipare possibili “discese in campo” mentre ancora si indossa la toga perché in questo modo si presta il fianco a facili strumentalizzazioni del proprio lavoro (e quindi anche delle proprie indagini) e dell’istituzione che si rappresenta e incarna.
La scelta di fare politica deve essere irreversibile ma credo che sarebbe importante anche evitare che appaia come la prosecuzione del proprio lavoro nella giurisdizione, perché altrimenti quella linea tra politica e giustizia si confonde e si confondo i cittadini.
L’autorevolezza delle istituzioni e gli equilibri previsti dalla Costituzione sono più importanti delle legittime aspirazioni di un magistrato e la particolare funzione che svolgiamo ci deve suggerire particolare sobrietà e prudenza, da non confondersi con la timidezza o la vergogna.
Partecipare invece al dibattito pubblico sui temi della giustizia e in difesa della Costituzione (i cui valori fondamentali dovrebbero essere fuori dalle contese di parte) è un diritto pieno e a volte persino un dovere per un magistrato che opera in questo Paese martoriato dall’illegalità e dove spesso la buona informazione latita.