La minaccia principale alla sicurezza interna deriva dall’intreccio tra le formazioni rivoluzionarie che hanno deposto il regime di Gheddafi con l’appoggio della Nato e i nuclei di militanti jihadisti che già erano presenti nel paese o che sono entrati approfittando proprio della guerra
Non è un fulmine a ciel sereno l’attacco di oggi a Bengasi, se non per la rilevanza del bersaglio. Nonostante il successo politico delle elezioni parlamentari dello scorso 7 luglio, la situazione nel Paese è tutt’altro che serena. A fine agosto, per esempio, in pieno giorno a Tripoli, un gruppo di islamisti radicali aveva raso al suolo una moschea, perché conteneva le tombe di alcuni mistici sufi. Non c’erano state vittime, ma l’atto era stato comunque di una gravità senza precedenti e il fatto che fosse successo di giorno e in piena città dimostrava, da un lato, la sicurezza dei militanti, e dall’altro l’incapacità delle forze di polizia e del governo di impedire simili azioni. Alcuni gruppi jihadisti considerano il sufismo estraneo all’ortodossia musulmana, nonostante il suo radicamento sociale e culturale, anche in Libia, tanto che il giorno precedente, il 24 agosto, un altro gruppo radicale aveva distrutto un’altra moschea sufi a Zlitan e dato fuoco alla biblioteca annessa.
Mohamed al-Magariaf, presidente del Congresso nazionale, aveva affidato la sua amarezza a un commento ripreso dalle agenzie di stampa internazionali: “Ciò che è davvero fonte di rammarico e di sospetto è che una parte di quelli che hanno partecipato a queste distruzioni sono membri delle forze di sicurezza e sono ex rivoluzionari”. Stando al resoconto dei fatti di Tripoli offerto dall’agenzia Reuters, la polizia ha addirittura circondato l’area della moschea di Sha’ab per impedire che le persone si avvicinassero al bulldozer impegnato a demolirla. A presidiare il posto, oltre alla polizia, c’erano anche molti uomini armati, appartenenti a una delle milizie che, dopo la caduta di Gheddafi, sono ancora presenti nel Paese.
La minaccia principale alla sicurezza interna della nuova Libia, secondo molte analisi internazionali, deriva proprio dall’intreccio tra le formazioni rivoluzionarie che hanno deposto il regime di Gheddafi con l’appoggio della Nato e i nuclei di militanti jihadisti che già erano presenti nel paese o che sono entrati approfittando proprio della guerra. Sia il Consiglio nazionale di transizione che il nuovo Congresso hanno fatto della smilitarizzazione di queste formazioni una priorità politica, ma finora senza ottenere i successi sperati.
Un recente articolo apparso sulla rivista Foreign Affairs, peraltro, illustra l’ambiguità dei rapporti tra le milizie e le nuove istituzioni politiche. Da un lato, infatti, il governo ha attivato alcuni programmi per disarmare e smobilitare le milizie e integrare le “brigate” rivoluzionarie nella struttura del nuovo esercito nazionale e nei servizi di sicurezza. Dall’altro, proprio l’assenza di efficaci forze di polizia, ha fatto sì che lo stesso governo si affidasse ad alcune milizie per garantire il controllo delle zone più difficili del paese. Milizie sono state usate, per esempio, per intervenire in una disputa tribale nelle zone di Kufra e Sabha, nel deserto, ma anche per garantire, con un regolare contratto dal ministero della Difesa, la protezione di alcune installazioni petrolifere e dei valichi di confine più remoti. Non solo: dopo il voto del 7 luglio, a Bengasi, le schede elettorali sono state portate per il conteggio nel quartier generale della più forte milizia locale, in mancanza di un luogo ritenuto più sicuro.
Una mappa più dettagliata della geografia delle milizie libiche è stata prodotta dal centro di ricerca svizzero Small Arms Survey. In sette mesi di lavoro sul campo, i ricercatori hanno valutato che esistono almeno quattro tipi diversi di gruppi armati: brigate rivoluzionarie, brigate irregolari, brigate post-rivoluzionarie e milizie. In termini di cifre, secondo questo rapporto, tra il 75 e l’85 per cento degli uomini armati e una percentuale simile delle armi negli arsenali, sono fuori dal controllo del governo centrale. In termini di numeri, per fare un esempio, nella sola provincia di Misurata, ci sono almeno 236 gruppi armati, per un totale di circa 40 mila uomini.
Non sarà facile, conclude l’indagine, arrivare al disarmo promesso, perché tra le forze rivoluzionarie e post-rivoluzionarie (per non dire delle milizie al confine con il banditismo puro) e gli apparati dell’ex esercito nazionale e del ministero della Difesa è in corso uno scontro di potere su come ricostruire le forze armate. Un altro recente studio sulla situazione in Libia, pubblicato la scorsa settimana dal Norwegian Peacebuilding Resource Centre, segnala un altro aspetto del problema, per certi versi più inquietante: la debolezza delle istituzioni pubbliche libiche, quasi inesistenti nell’epoca di Gheddafi ed esautorate dal potere di fatto della dittatura, rende particolarmente difficile instillare un nuovo spirito pubblico e un senso di cittadinanza condivisa, lasciando così spazio a una deriva localistica. La religione, come anche l’appartenenza tribale, tuttavia, non va presa come una chiave di interpretazione delle difficoltà della transizione libica, né come elemento identitario determinante: dietro gli argomenti religiosi o tribali, infatti, si nasconde spesso una molto concreta e “laica” rivalità per il controllo delle risorse petrolifere.
di Joseph Zarlingo