C’ero anch’io, alla festa del “Fatto” di Marina di Pietrasanta, domenica scorsa. E non fra le seimila persone assiepate sotto e intorno al palco. Proprio sul palco. Insieme con Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Marco Travaglio e Marco Lillo. Per assistere e partecipare – dall’inizio alla fine – all’iniziativa organizzata in occasione della consegna di oltre 150mila firme di cittadini raccolte dal “Fatto” per solidarietà verso i magistrati della Procura di Palermo. Posso quindi dire – serenamente – che le reazioni del collega Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), mi sono sembrate decisamente sopra le righe. Sostiene Sabelli che la legittimazione della magistratura si fonda sulla fiducia e non sulla ricerca del consenso della piazza. Vero. Ma a Marina di Pietrasanta i magistrati di Palermo si sono limitati a prendere atto che un numero enorme di cittadini voleva esprimere loro proprio e solo fiducia.
Fiducia per il lavoro di complessità assolutamente eccezionale che essi stanno svolgendo. Con un coraggio intellettuale non comune, essendosi inoltrati consapevolmente – guidati soltanto dall’interesse generale all’osservanza della legge – nel labirinto vischioso rubricato alla voce delle “trattative” fra Stato e mafia che si sarebbero variamente intrecciate, persino dandovi causa, con le stragi del 1992/93. Un labirinto nel quale si intravvedono o si intuiscono – oltre ad interessi propriamente criminali – altri interessi, non meno oscuri e torbidi. L’idea di raccogliere le firme è stata di Margherita Siciliano, una signora di Collegno, lettrice del “Fatto”, apparsa poi (anche lei era sul palco) piuttosto timida. Nulla che evochi piazze esagitate.
Semplicemente un’iniziativa autenticamente popolare e spontanea, non richiesta né sollecitata in alcun modo dai magistrati. Un’iniziativa che il capo del Sindacato della magistratura dovrebbe apprezzare, anche perché ha determinato una valanga di adesioni (ben oltre ogni più ottimistica previsione) che rappresentano una formidabile manifestazione di fiducia verso la categoria. Esattamente quello che Sabelli chiede e che si inserisce nella situazione di difficoltà e di isolamento dei colleghi palermitani come una preziosa boccata d’ossigeno. Questa situazione di isolamento è stata denunziata soprattutto da Nino Di Matteo, che ha anche lamentato il silenzio assordante dell’Anm.
Bè, dal capo dell’Anm mi sarei aspettato un contraddittorio basato sull’analitico e scrupoloso elenco degli interventi svolti a sostegno della Procura di Palermo, da tempo nell’occhio del ciclone di polemiche spesso pretestuose. Invece nulla di simile. Anzi, una stizzita presa di posizione che si è risolta in una serie di bacchettate su vari versanti: dall’accusa di sovraesposizione a quella di comportamenti oggettivamente politici che rischiano di offuscare l’imparzialità, soprattutto se si è titolari di inchieste che si prestano a strumentalizzazioni.
Accuse che la magistratura palermitana (e non solo) sente ripetere da tempo e che possono facilmente essere contrastate dalla constatazione che non è la magistratura a essersi inventata i rapporti fra mafia e politica. Essi sono realtà della storia di ieri e di oggi del nostro Paese, e Ingroia – parlandone – non fa politica ma storia, peraltro senza mai entrare nel merito delle inchieste, ma proprio al fine di contrastare le strumentalizzazioni che giustamente preoccupano Sabelli. Il quale ha anche sostenuto che i magistrati presenti sul palco avrebbero dovuto dissociarsi, magari alzandosi e andandosene, da alcune considerazioni espresse nei confronti del presidente Napolitano. Senonché, dopo la consegna delle firme, l’iniziativa è proseguita non con un confronto-dibattito ma con l’esposizione di vari contributi autonomi. Difficile condividere la tesi che vi sarebbero responsabilità in caso di mancata esplicita dissociazione quando uno dei partecipanti all’iniziativa esponga sue opinioni su argomenti obiettivamente controversi.
Fino a pretendere una qualche forma di dissenso plateale, quasi si trattasse di un talk-show qualunque. Credo che in questo modo si finisca per fare, involontariamente, un torto allo stesso presidente Napolitano. Perché non siamo più ai tempi (1852) del consigliere di cassazione Ignazio Costa della Torre, condannato ad una pesante sanzione (poi condonata in parte) perché in un opuscolo in difesa del privilegio della giurisdizione ecclesiastica aveva sostenuto, offendendo la persona sacra ed inviolabile del Re, che un ministro gli aveva posto in bocca il discorso della corona. Dallo Statuto Albertino siamo passati alla Costituzione repubblicana. Che impone ai magistrati, come a tutti i cittadini italiani, di rispettare l’istituzione Capo dello Stato, ma non impedisce di discutere – ad esempio – sull’opportunità o meno di sollevare il noto conflitto avanti alla Consulta.
da Il Fatto Quotidiano del 12 settembre 2012