A Kismayo, in Somalia, i civili stanno per l’ennesima volta scappando, spinti dalla paura di rimanere tra due fuochi. Nonostante ieri sia stato eletto il nuovo Presidente della Repubblica, Hassan Sheikh Mohamoud, i ribelli di Al-Shabaab ancora controllano vasti territori e non riconoscono il nuovo Presidente come legittimo. Le truppe di Etiopia e Kenya hanno bombardato dalle acque di fronte al porto di Kismayo con l’obiettivo di colpire gli insorti di Al-Shabaab, i quali a loro volta minacciano i civili che cercano di lasciare la città. La situazione della Somalia, alla quale bisogna aggiungere il fardello della carestia, è stata descritta dalle Nazioni Unite come la peggiore al mondo.
Penso subito a Samia Yusuf Omar, alla sua foto su un giornale dopo Ferragosto, quando le Olimpiadi di Londra si erano appena concluse. Nel 2008 alle Olimpiadi di Pechino, aveva rappresentato la Somalia come velocista, era arrivata ultima, ma era comunque contenta di aver conseguito il suo primato personale. Poi quest’estate l’ atleta somalo Abdi Bile, ha dichiarato che Samia sarebbe morta, annegando dopo il rovesciamento del barcone che doveva portarla dalla Libia a Lampedusa. Veniva per cercare un allenatore in Italia ed era nata nel 1991, anno in cui la Somalia precipitò nella guerra civile che non è ancora finita.
La vita di un’ atleta non deve essere facile a Mogadiscio, non deve esserla per nessuno. Anche se passano in secondo piano, notizie come quelle che si apprendono oggi da Kismayo sono all’ordine del giorno. La Somalia non è ancora uno Stato di fatto, ma un territorio in cui formazioni armate come Al-Shabaab controllano l’ordine pubblico con la violenza.
Mi ricordo di Abu, un ragazzo somalo che conobbi nel 2008 in un centro di detenzione per clandestini a Malta. Nato come Samia nel 1991 e anche lui fuggito per un futuro diverso, mi disse: “In Somalia è più facile prendere tra le mani un AK-47 piuttosto che una penna e un libro. Sono scappato per scegliere la penna e il libro. Ero con un mio amico quando vedemmo Al-Shabaab seminare di mine un terreno vicino casa nostra. Raccontammo tutto alla polizia, che quindi venne per esaminare l’area. Il giorno successivo il mio amico venne ucciso. Avevamo già ricevuto delle minacce, perché volevano che facessimo parte della milizia. Non sarei sopravvissuto in Somalia. Sarei morto sia se mi fossi arruolato, sia se mi fossi rifiutato di farlo”.
Come Samia, Abu aveva attraversato il deserto e aveva conosciuto la prigione in Libia: “Quando attraversai il deserto, due persone che viaggiavano con me morirono di sete. Mi presero e mi portarono in prigione mentre cercavo di attraversare il confine con la Libia, presero tutto quel che avevo e cominciarono a trattarmi come un animale. Mangiavo una volta al giorno, di notte mi picchiavano come un pallone da calcio. Mettevano la mia testa in un secchio d’acqua e mi appendevano per le gambe. Volevo uccidermi. Ero nudo, scalzo, sporco. Ma sono stato fortunato, sono rimasto in prigione solo un anno”.
Il parlamento somalo ha appena votato “il Presidente del cambiamento” che dovrebbe portare il paese al voto nel 2016. Eppure dal 1991, anno di nascita di Abu e Samia, il conflitto somalo ha prodotto circa mezzo milione di morti (fonte Peacereporter) ed ha obbligato –come sta succedendo anche adesso – più di un milione di civili a fuggire. E il bollettino di guerra non si ferma qui.
Molti dei quei civili, fuggendo, hanno incontrato lo stesso destino di Samia. Non sappiamo esattamente quanti siano, ma secondo Fortress Europe, dal 1988 al 7 settembre 2012, ben 18.535 persone che fuggivano da guerre, carestie e situazioni come quella somala, sono morte lungo le frontiere europee.
Solo pochi giorni fa l’ennesimo naufragio al largo di Lampedusa ha causato un morto e 79 dispersi, dispersi dietro ai quali c’erano altri come Samia ed Abu. Un bollettino di guerra.