In questi giorni è stato pubblicato sul sito del ministero di Giustizia la sentenza del 28 agosto della Corte Europea dei Diritti Umani che bocciò la famigerata legge 40, quella che circondò la pratica della fecondazione assistita con tanti biechi divieti che migliaia di coppie sono state costrette ad andare all’estero per potere soddisfare il loro desiderio di avere figli – o almeno quelle che se lo possono permettere. La traduzione della sentenza, a cura del ministero, è ottima, lasciando trasparire con limpida chiarezza le ragioni della netta condanna che i giudici di Strasburgo, all’unanimità, hanno inflitto all’Italia. Sorprendente solo la solerzia – c’erano le ferie di mezzo, ma la materia, si sa, è politicamente incandescente. I più raccomandati presso l’attuale governo in questa lunga battaglia sono senza dubbio i sostenitori della legge, incluso il Vaticano, che non esita ad interferire in questa delicata materia.
Il ministro per la salute Renato Balduzzi ha già annunciato la sua intenzione di proporre al consiglio dei ministri di ricorrere contro la sentenza. Una decisione non affatto scontata, perché la legge risale ad un precedente governo ed è già stata ridimensionata da altre sentenze. L’orientamento del ministro è contestata dalla (ristretta) pattuglia più laica del Parlamento. C’è da chiedersi, infatti, chi glielo fa fare ad un governo che non perde occasione per vantarsi del suo europeismo zelante, di mettersi contro una sentenza della Corte Europea. Ma forse la risposta è fin troppo facile. Non si conoscono gli orientamenti degli altri componenti del governo, a cominciare da Mario Monti, ma nessuno dubita che il loro sia un silenzio -assenzo ai voleri di Balduzzi – o meglio, della Curia.
All’origine della causa c’era il ricorso “contro la Repubblica italiana” fatto da una coppia romana, Rosetta Costa e Walter Pavan, i quali, dopo la nascita della loro figlia, avevano scoperto di essere portatori sani di fibrosi cistica. La bambina, che oggi ha sei anni, è stata colpita da questa grave patologia. La coppia avrebbe voluto ricorrere alla fecondazione assistita, con diagnosi preimpianto, per evitare il ripetersi di questo dramma, ritenendo che il divieto imposto dalla legge 40 violasse il loro diritto a mettere al mondo un bambino sano. La Corte gli ha dato ragione, bocciando l’irragionevole ingerenza della legge nel loro diritto al rispetto della loro vita familiare (Articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).
Per giustificare l’ingerenza, il governo precedente aveva invocato “la preoccupazione di tutelare la salute del bambino e della donna”, nonché “la dignità e la libertà di coscienza delle professioni mediche” e l’interesse ad evitare il rischio di “derive eugeniche”.
Cito la risposta della Corte: ” Questi argomenti non convincono la Corte. Sottolineandoin premessa che il concetto di «bambino» non è assimilabile a quello di «embrione», essa non vede come la tutela degli interessi menzionati dal Governo si concili con la possibilità offerta ai ricorrenti di procedere ad un aborto terapeutico qualora il feto risulti malato, tenuto conto in particolare delle conseguenze che ciò comporta sia per il feto, il cui sviluppo è evidentemente assai più avanzato di quello di un embrione, sia per la coppia di genitori, soprattutto per la donna.”
Avendo constato la grave e dannosa incoerenza della legislazione italiana, la Corte si è soffermata sull’angoscia di una madre confrontata con un dilemma simile. Un atto di rispetto e di pietà che è mancato ad un legislatore goffo e crudele – e ai solerti ministri di un governo tecnico che ha nelle proprie ragioni costitutive il rispetto di ciò che l’Europa ci chiede sul piano economico, ma che si accinge invece a contrastare le decisioni di giudici europei sul piano delle libertà civili.
Il governo ha tre mesi dalla data della sentenza, il 28 agosto, per depositare il proprio ricorso. La sua accettazione deve passare per il vaglio di un collegio di cinque giudici che dovranno decidere sulla sua ricevibilità. In genere è molto difficile che un ricorso contro una sentenza passata all’unanimità venga accettato, ma in questo caso le cose potrebbero andare diversamente, dicono quelli che frequentano i corridoi di Strasburgo. Le pressioni, comprese quelle del Vaticano, saranno tali che il ricorso ha buone probabilità di spuntarla.
In questo caso la famiglia Pavan dovrà aspettare almeno due anni per un secondo processo davanti alla Grande Camera della Corte. Il loro desiderio, che la Corte aveva giustamente riconosciuto come urgente, di dare un fratellino o una sorella alla loro bambina è rimandato per anni – con esiti imprevedibili.
Di fronte all’arbitrio si può e si deve reagire. Così come mi riferiscono che si sta già muovendo una felpata lobby per spingere in un certo senso la decisione del primo collegio giudicante, quello dei cinque giudici che devono decidere sull’accettabilità del ricorso, il campo è aperto per un azione inversa – anche, se poi ce ne sarà bisogno, al momento di un altro processo a Strasburgo. Si deve ricostituire presto e bene quell’coordinamento tra parlamentari ed associazioni che già ha lavorato con successo a sostegno della prima sentenza. Per non lasciare soli Rosetta e Walter, e tanti altri genitori come loro.