Della pellicola che ha infiammato i paesi musulmani per ora esistono solo un trailer grottesco e un regista misterioso. Si indaga sul ruolo di al Qaeda, ma nel mondo arabo diverse forze hanno interesse a cavalcare la protesta per scopi politici interni
Capire se ci sia o meno Al Qaeda, in una delle sue sfumature, dietro l’attacco al consolato statunitense di Bengasi è, sicuramente rilevante e non solo dal punto di vista investigativo. Non meno rilevante è capire ci sia dietro il nome di Sam Bacile a cui il film The Innocence of Muslims è stato attribuito, ma di cui ci sono ben poche tracce. I media statunitensi, finora, sono arrivati solo a un nome, tale Nakoula Basseley Nakoula, cittadino statunitense di origine egiziana, cristiano copto. A quanto pare. A vedere il trailer del film, diffuso su Youtube all’inizio di luglio, la storia dei 5 milioni di dollari di produzione avuti da “finanziatori ebrei” suona piuttosto ridicola: le immagini, ammesso a questo punto che siano vere e che esista davvero il resto del film, sono da pellicola di serie C, grottesche. I 13 minuti di trailer sono stati caricati su Youtube all’inizio di luglio, poi doppiati in arabo e ripresi da un blogger egiziano-americano. Da lì, due mesi dopo, l’8 settembre, sono arrivati su una tv egiziana, vicina ai salafiti, che ne ha mandato in onda un paio di minuti.
Sicuramente più rilevante è che la diffusione di un filmaccio ha scatenato una ondata di proteste che, con modi e stili differenti, ha infiammato ancora una volta il mondo musulmano, soprattutto quello arabo, con echi fino alla Malayisia e al Bangladesh, e con molte vittime. Che tutto ciò sia avvenuto attorno alla fatidica data dell’11 settembre non fa che accentuare l’eco di una protesta che, nonostante il suo carattere apparentemente globale, ha però modulazioni interne che vale la pena esaminare brevemente. L’attacco a Bengasi, tanto per cominciare, con le proteste di piazza c’entra poco: in questo caso il film incriminato sembra un pretesto per un’azione tutt’altro che improvvisata. Forse non c’entra Al Qaeda, come ha detto il nuovo primo ministro libico Mustafa Abu Shagur, ma di certo l’attacco ha a che fare con la galassia delle milizie, brigate e gruppi armati che in Libia si contendono il potere.
Le manifestazioni più imponenti sono state in Sudan, con l’appoggio del governo autoritario del presidente Bashir che ha una delicata partita in corso. Poche settimane fa, nella stessa Khartoum, c’erano state altre manifestazioni, stavolta contro il governo, per il caro-vita. Bashir, inoltre, è impegnato in un pericoloso braccio di ferro con il governo del Sud Sudan e con i ribelli armati dell’opposizione interna. Il sospetto di una strumentalizzazione governativa è molto forte. In Yemen la presenza jihadista è molto radicata, da anni, e da anni gli Usa colpiscono duro, prima anche con la collaborazione del presidente-padrone Ali Abdullah Saleh, ora con quella del nuovo governo. In Tunisia, già da dopo le elezioni, è in corso una lotta per l’egemonia politica tra l’anima laica della rivoluzione e quelle islamiste di vario tipo, da Ennhada, il partito che ha vinto le elezioni, fino ai gruppi salafiti che usano le vie di fatto e più spicce per cercare di imporre una re-islamizzazione forzata della società. Si potrebbe continuare con i distinguo, per tenere conto delle pecularità di Tripoli, in Libano, dove appena nel 2007 l’esercito libanese condusse a colpi di cannone una mini-guerra contro un gruppo jihadista, Fatah al-Islam, che si era insediato nel campo profughi di Nahr al Bared.
Conviene però tornare in Egitto, dove tutto sembra iniziato, e dove la partita è più complessa. I gruppi salafiti hanno una opportunità magnifica, dal loro punto di vista: mettere in difficoltà il presidente Mohammed Mursi che si trova a doversi destreggiare tra la difesa del diritto di manifestare, appena conquistato dagli egiziani dopo la caduta di Mubarak, il bisogno di non cedere nemmeno un millimetro della propria credibilità musulmana alla concorrenza dei salafiti e il bisogno di non continuare ad accreditarsi come leader credibile davanti a quegli stessi paesi occidentali le cui ambasciate sono prese di mira dai manifestanti. La durezza della polizia egiziana, che ancora non ha cambiato pelle, si presta benissimo a rinfocolare lo scontro interno.
Dall’Egitto arriva il commento di Hani Shukrallah, editorialista di Al Ahram, che parla di «cospirazione della convenienza». Evocando il caso delle proteste contro le vignette pubblicate nel 2005 dal giornale danese Jylland Posten e quello del predicatore cristiano fondamentalista statunitense che aveva organizzato i roghi del Corano, Shukrallah scrive: «Il motivo di questi tentativi di provocazione è chiaro: mostrare i musulmani come intolleranti, violenti, barbari, attributi che sono profondamente iscritti nel discorso razzista anti-musulmano dell’Occidente. Ed è una facile scommessa per il fatto che tra di noi ci sono quelli pronti a rispettare questo ruolo». Shukrallah aggiunge ulteriori «prove circostanziali» al suo ragionamento: nella campagna elettorale statunitense, l’ultradestra religiosa – alla cui galassia appartiene anche una parte della diaspora copta egiziana da cui potrebbe provenire il presunto autore del film incendiario – ha buon gioco a cercare di mettere in difficoltà Obama sul terreno scivoloso dei suoi rapporti con il mondo musulmano e arabo. Infine, come nel gioco delle parti ai tempi di George W. Bush, l’effetto prodotto da questa cospirazione della convenienza è di sostituire alle immagini rassicuranti delle piazze arabe piene di giovani, uomini e donne, sollevati contro i dittatori, quella delle bandiere (di nuovo) bruciate e delle folle inferocite.
Vale la pena riprendere un passaggio dei paragrafi conclusivi dell’analisi di Shakrullah: «Nel senso più ampio, ci sono forze nei mondi arabo e musulmano la cui ragione di esistenza è l’assunto di uno scontro di civiltà, un eterno e attuale scontro tra i fedeli e gli infedeli, accusati di puntare alla distruzione dei primi. Più concretamente, però, le rivoluzioni arabe e specialmente la rivoluzione egiziana, hanno mostrato in modo luminoso e magnifico che milioni tra noi – i più coraggiosi, nobili, politicamente coscienti e pronti al sacrificio tra noi – marciano a un ritmo diverso. Hanno parlato di libertà, democrazia e diritti umani, di fratellanza e uguaglianza, e spalla a spalla hanno combattuto con grande eroismo, uomini e donne, musulmani e cristiani e atei». La stessa considerazione può valere per questo lato del mondo: anche qui ci sono forze la cui ragione di esistenza è rappresentare e alimentare lo scontro di civilità. Anche con una miccia di 13 minuti su Youtube.
di Joseph Zarlingo