Matteo Renzi, classe 1975. Poco più che un ragazzino per il nostro vecchio Paese. Un alieno per il sistema di potere made in Italy, dove affiliazione e cooptazione contano più di merito e talento. Alla ribalta per la rottamazione – luogo della comunicazione politica in grado di mettere in ombra il vaffa di Grillo – adesso vuole diventare Premier.
Renzi è molto politico anglosassone, giovane e sportivo. Potremmo rivedere in lui, come da esperimento di laboratorio: un incrocio tra l’arrogante intelligenza di D’Alema e la cinica narrazione di Veltroni, con un pizzico di simpatia toscana, battuta pronta e piglio deciso di chi è convinto delle sue possibilità. È il primo leader della sinistra post ideologica, non ha bisogno di chiedere “il permesso” alla burocrazia vaticana per la tradizionale appartenenza alla defunta chiesa di Mosca. Ma anche il primo che non porta rispetto ai monumenti del ‘900 come l’articolo 18, rendendolo più libero nel confrontarsi con professioni e partite iva.
Irriverente, per i tanti conservatori del nostro Paese per cui la gioventù non è un valore positivo ma sinonimo d’incapacità. In questa linea s’inserisce l’attacco di Casini “Renzi ad un vertice con la Merkel farebbe ridere”. Attacco al quale Renzi non ha fatto mancare una sprezzante risposta: “Quando andavano loro dalla Merkel, eravamo noi che piangevamo”.
Lo devo ammettere, l’irriverenza di Renzi mi piace. Sarà che dopo anni di dinosauri dalla retorica facile sui “bamboccioni” viziati, vederne uno che li mette all’angolo è una soddisfazione. Penso alla burocrazia del Pd, convinta di dover solo modificare il fiocco per riproporre il pacco da farci digerire. Si trova sotto shock. Allarmata. Pensateci, al Pd, alla sua creazione, una grande idea rimasta sulla carta, con due gruppi dirigenti di diversi partiti che hanno messo in liquidazione le vecchie case dividendosi gli spazi nella nuova. Hanno fatto una legge elettorale dove si nominano loro stessi in Parlamento. Addirittura gira voce che si erano già messi d’accordo per il 2013: Bersani premier con la Bindi vice, Veltroni presidente della Camera, D’Alema ministro, Franceschini segretario e così via. In attesa, bisognava sgonfiare Grillo, spostare l’attenzione del Paese su alleanze e legge elettorale, poi salutare i tecnici che hanno fatto il lavoro sporco e caricare su di loro responsabilità e fallimenti. Accade però che ai calcoli degli strateghi – la gioiosa macchina da guerra di Occhetto ci ricorda qualcosa- sfugge che la storia si mette in moto, ed ironia della sorte lo strumento è l’unica innovazione del bel pacco che i dirigenti hanno prodotto: le primarie. Capi bastone, correnti, fondazioni, apparati, peones e aspiranti tali, vengono richiamati a difendere il “giocattolo” – che sarebbe un bellissimo partito con milioni di elettori, migliaia di amministratori e militanti meravigliosi- dallo tsunami Renzi.
Di lui, del giovanotto irriverente verso i notabili, mi piace la freschezza con la quale dice cose che tutti pensiamo: “Veltroni è meglio come romanziere”, “la Finocchiaro dopo 28 anni di Parlamento potrebbe lasciare e pensare ai nipotini”, “era di sinistra far cadere il governo Prodi?” (rivolto a Vendola), fino alla ricetta anti Grillo per cui “basterebbe dimezzare i parlamentari e eliminare le provincie”.
Cose semplici, chiare, come chiedere alle multinazionali che hanno preso i soldi per il carbone e l’acciaio di restituirli e di effettuare le bonifiche.
Matteo Renzi parla di politica, senza sconti, ammiccamenti. Il programma, “non una lista della spesa” che sarà la rete e la filosofia “wiki” a scrivere, dove i pilastri sono Europa, Futuro, Merito. Per lui “la crisi è una grande opportunità, perche veramente ci mettiamo in gioco e cambiamo definitivamente le regole su cui poggia il sistema italiano”. Le crisi hanno un inizio e una fine, questa no, perché è il mondo che cambia, non si torna come prima. Opportunità che non deve essere sprecata, unita alla rottamazione “non come fatto anagrafico, ma come cambiamento”. Sì, perché il cambiamento di questo Paese passa dal cambiamento della classe dirigente, che è vecchia, figlia di dinamiche novecentesche e responsabile dello stato di salute del nostro Paese, sono quelli che “hanno considerato il domani un’immensa discarica in cui mettere le questioni scomode”. Questioni che oggi si chiamano Ilva, Sulcis, Fiat, ma anche tasso di disoccupazione dei giovani, debito pubblico.
Tre sono i grandi meriti di questo simpatico irriverente bamboccione, che potremmo già definirle successi: 1) aver messo al centro dell’agenda politica e di governo la questione giovanile; 2) riacceso l’attenzione sulla politica, riportando la palla nel campo democratico, e spegnendo il fenomeno Grillo; 3) la sfida all’establishment della sinistra come un’opportunità per rinnovare l’intero sistema della classe dirigente italiana.
Renzi si mette alla testa della generazione perduta, dei bamboccioni che hanno il talento e l’energia, che non hanno la possibilità di stare fermi. Se per Renzi il coraggio è mettersi alla prova, non aspettare il proprio turno, la sconfitta è non provarci. Condivido. Il vero rischio è “restare in panchina”, forse andrà male, ma intanto adesso abbiamo un’opportunità.
Generazione perduta è il momento di “battere il calcio di rigore”.