Il mondo torna, almeno temporaneamente, protagonista della campagna elettorale Usa. Mitt Romney utilizza la morte dell’ambasciatore Chris Stevens e degli altri tre americani per attaccare come mai prima la politica estera di Barack Obama. Nelle ultime ore, forse nel timore di apparire troppo “partigiano” in un momento di crisi nazionale, il candidato repubblicano ha attenuato i toni. In un comizio a Fairfax, Virginia, Romney si è limitato a definire la morte dei quattro “una tragedia”. Ben più duro era stato il giudizio nelle ore immediatamente successive all’attacco. Prima ancora di sapere cosa fosse davvero avvenuto, e prima che arrivasse la notizia della morte di Stevens, Romney aveva detto: “E’ vergognoso che la prima risposta dell’amministrazione Obama non sia stata quella di condannare gli attacchi alle nostre missioni diplomatiche, ma di simpatizzare con coloro che hanno condotto gli attacchi”.
Dopo una dura presa di posizione della campagna di Obama – “Siamo scioccati che, nel momento in cui gli Stati Uniti affrontano la morte tragica di uno dei nostri diplomatici in Libia, Romney scelga di lanciare un attacco politico” – è arrivata, glaciale, anche la risposta del presidente: “Il governatore Romney ha la tendenza a sparare prima di prendere la mira”, ha detto Obama, secondo cui “tocca agli americani decidere se Romney sia stato irresponsabile”.
La politica estera diventa quindi per la prima volta dall’inizio della campagna un tema del dibattito politico. Non solo Romney, ma interi settori del partito repubblicano – Newt Gingrich, l’ex-ambasciatore all’Onu John Bolton, il direttore della “National Review” Rich Lowry, il teorico neocon Bill Kristol – hanno visto nella crisi delle ambasciate in Egitto e Libia un’occasione da sfruttare politicamente per minare la credibilità di commander-in-chief di Obama. I punti cardine di questo attacco li ha esposti lo stesso Romney durante il comizio in Virginia. “Il mondo ha bisogno della leadership americana, il Medio Oriente ha bisogno della leadership americana – ha spiegato il candidato repubblicano, che ha criticato Obama per aver tagliato le spese militari: “Dai tempi di Roosevelt, abbiamo sempre avuto la capacità di impegnarci contemporaneamente su due fronti di conflitto. E ora Obama dice, ‘No, combattiamo una sola guerra’, e taglia quasi tremila miliardi di dollari all’esercito”.
Ritiro precipitoso dall’Iraq, prossimo ritiro, altrettanto disastroso, dall’Afghanistan, gestione ingenua delle “primavere arabe”, continua richiesta di scuse per la politica Usa, scarsa fiducia nell’eccezionalismo americano (“Obama non crede al destino privilegiato dell’America nel mondo”, è un leit-motiv costante della destra): saranno con ogni probabilità questi gli argomenti che i repubblicani useranno contro Obama nelle prossime settimane. Non si sa ancora con quali possibilità di successo. L’attuale presidente gode di un notevole credito all’interno del Paese per la sua gestione della politica estera e della lotta al terrorismo. Obama è il presidente che ha dato l’ok all’assassinio di Osama bin Laden e che ha fatto largo uso dei droni per eliminare i più pericolosi rappresentanti di al-Qaeda (l’ultimo, Saeed al-Shihri, è stato eliminato quattro giorni fa in Yemen). Lungi dall’essere ingenua o particolarmente arrendevole, la sua politica è stata anzi particolarmente dura, tale da guadagnarsi le critiche di molti gruppi per i diritti umani: prigionieri tenuti in stato di detenzione illimitata, massacri di civili durante i cosiddetti “omicidi mirati”, tribunali militari per i prigionieri di Guantanamo.
Oggi 51 americani su 100 dicono di gradire il modo in cui Obama ha gestito la politica internazionale; soltanto il 38% sceglie Mitt Romney (dati di un sondaggio Washington Post/ABC News del 9 settembre). Uno spostamento del dibattito elettorale dall’America al mondo potrebbe quindi far addirittura comodo ad Obama, che è più debole sulle questioni del lavoro, del “bread and butter”, della vita quotidiana, sempre più difficile, per milioni di americani. Romney del resto non ha fin qui brillato per sagacia internazionale. Il suo viaggio in Israele ed Europa, a luglio, è stato un disastro di comunicazione. Gran parte della sua filosofia nei riguardi del mondo è in bianco e nero, cucita sui cascami ormai anacronistici del pensiero neocon, volta a un confronto duro e irrealistico con Iran, Russia e Cina.
I fatti del Cairo e di Bengasi cambiano comunque – almeno in parte – le cose e “riportano la sicurezza nazionale in primo piano”, come dice l’ambasciatore Usa Tibor P. Nagy, che consiglia Romney sui temi di politica estera. Sono soprattutto due gli eventi che potrebbero creare più di un problema a Obama. Da un lato ci sono le “primavere arabe”: un rapido deteriorarsi della situazione nei paesi del Nord Africa renderebbe molto difficile continuare nella politica di non-ingerenza e sostegno alla transizione democratica messa sinora in atto da questa amministrazione (soprattutto in Egitto). Dall’altro lato rimane aperto il problema Iran. Un rapporto preparato dal National Counterterrorism Center e reso pubblico ieri mette in guardia gli Stati Uniti da un attacco alle basi nucleari e militari iraniane. “Si potrebbe distruggerle”, spiega il rapporto, ma ciò bloccherebbe solo temporaneamente i piani nucleari iraniani, e rischierebbe di incendiare l’intero Medioriente. Un’occupazione militare americana in Iran, spiega ancora il rapporto, sarebbe più gravosa di quelle di Iraq e Afghanistan messe insieme. Ecco perché l’amministrazione Obama non ha nessun interesse, al momento, di scegliere l’opzione militare in Iran. Lo stallo dei negoziati alla Aiea (che ieri ha condannato l’Iran con il voto anche di Russia e Cina), il rifiuto di Teheran di fermare i suoi programmi di arricchimento dell’uranio potrebbero però ridare fiato agli interventisti, al governo di Benjamin Netanyahu e mettere Obama di fronte a scelte drammatiche e rischiose.
Ecco perché la politica estera potrebbe, nelle prossime settimane, giocare un ruolo sinora inaspettato nella campagna presidenziale americana. Ed ecco perché oggi, venerdì, la riunione degli advisers di Mitt Romney sarà dedicata proprio a quanto succede fuori, nel mondo.