È ricoverato nel reparto grandi ustionati dell’ospedale Perrino di Brindisi, l’operaio di 20 anni rimasto ferito nella tarda serata di ieri nell’Ilva di Taranto. Al termine dell’orario di lavoro, il giovane dipendente di un’azienda dell’indotto che lavora nel reparto Cokeria dello stabilimento siderurgico, è caduto in una vasca che conteneve olio combustibile procurandosi, fortunatamente, solo ustioni di secondo grado alle gambe e al bacino.

A partire dalle prossime ore i custodi tecnici Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento potrebbero presentare a Bruno Ferrante, presidente del cda Ilva – e contemporaneamente quarto amministratore giudiziario, ma solo con compiti relativi alla gestione del personale –, le nuove direttive finalizzate allo spegnimento dei primi impianti. Nel mirino dei custodi potrebbero finire alcuni altiforni, le batterie del reparto Acciaieria e lo stesso reparto Cokeria.

Dopo lo stop all’approvvigionamento delle materie prime, insomma, il fermo dei macchinari per la messa in sicurezza appare sempre più vicino. Un’operazione estremamente delicata data la complessità delle strutture, che potrebbe richiedere diverse settimane prima di arrivare al fermo definitivo, per ottenere un duplice risultato: la sicurezza degli impianti e, soprattutto, l’eliminazione delle situazioni di pericolo per la popolazione e per i lavoratori.

L’azienda intanto, lottando contro il tempo, ha deciso di presentare nei prossimi giorni il nuovo cronoprogramma. Una serie di interventi che si aggiungerebbero alle richieste già depositate in Procura, ma che non avrebbero ottenuto il benestare dei magistrati né tantomeno dei custodi tecnici. Nelle tre semplici pagine presentate da Ferrante nella riunione con il pool di magistrati guidati dal procuratore Franco Sebastio, l’azienda ha chiesto, infatti, l’autorizzazione alla Procura – e non al gip Todisco – per effettuare lavori sugli altoforni 1 e 2 (adeguamento e potenziamento dell’impianto di depolverazione e realizzazione di impianto di condensazione dei vapori), il completo rifacimento delle pareti dei forni a coke, una serie di misure per il reparto Agglomerato e la chiusura e copertura del tetto dell’Acciaieria 1.

A questo va aggiunto anche il sistema “fog cannon” da installare nel reparto Gestione Materiali Ferrosi per abbattere l’emissione incontrollata di polveri. Insomma misure tecniche su tutti i reparti tranne su quello che resta il principale reparto indagato per l’emissioni fuggitive: il parco minerali. Un caso? Evidentemente no, visto che a margine delle tre pagine l’azienda accenna quasi impercettibilmente al “completamento delle barriere frangivento”, bloccato all’inizio del loro mandato dai custodi tecnici. Uno stop che sembrerebbe legato a una serie di aspetti che l’azienda avrebbe quantomeno trascurato.

I lavori per il barrieramento, infatti, oltre a essere svolti in un’area sequestrata senza l’autorizzazione dei nuovi responsabili nominati dal gip Todisco, avvenivano in un’area da bonificare e quindi in violazione di una norma del testo unico per l’ambiente che regolamenta i siti di interessa nazionale come Taranto. Non solo. Lo studio effettuato dall’Ilva per la realizzazione di questa barriera antiveleni avrebbe stabilito che le emissioni di polvere verso il quartiere Tamburi sarebbero determinate dalle movimentazioni dei materiali e dalla velocità dei mezzi e non, invece, dai fenomeni erosivi del vento, principale responsabile della dispersione incontrollate di minerale di ferro e carbone.

Il parco minerali e la sua copertura restano, quindi, ancora il nodo cruciale della vicenda. I custodi e l’Arpa non hanno dubbi: il barrieramento resta una misura inefficace ad eliminare l’arrivo di polveri nocive nelle case degli abitanti del quartiere Tamburi, l’unica azione concreta ed esaustiva resta la copertura. A costo di “onerosissimi impegni finaziari” per l’azienda, come stabilito anche dal Tribunale del riesame nella conferma del sequestro senza facoltà d’uso.

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