Secondo la recente fotografia scattata dall’Istat, negli ultimi otto anni le persone a rischio sovrappeso sono arrivate ad essere il 40,1 per cento della popolazione (+4 per cento). Preoccupante il dato tra i più piccoli, nella fascia sotto i sedici anni, che ha conferito all’Italia il primato europeo per l’obesità infantile
Vivere in città rende più magri? Dipende dallo Stato anzi dal continente in cui si vive. Negli Stati Uniti infatti la campagna è “grassa”, in Italia invece i centri urbanizzati garantiscono più persone obese. La vita frugale della campagna farà anche bene alla salute, ma probabilmente non è proprio il massimo per la linea in America. Una ricerca della University of Kansas, condotta da Christie Beffort, docente di Medicina Preventiva, e pubblicata su Journal of Rural Health, riporta la propria innovativa ipotesi sull’impennata dei casi di obesità al di là dell’Atlantico, suggerendo – contrariamente a quanto sostenuto dalla maggioranza degli studi sul tema – che chi vive in città ha meno probabilità di essere in sovrappeso rispetto ai residenti delle zone rurali. La dieta campagnola, infatti, sarebbe per gli americani molto ricca di grassi. E i cibi preparati in casa, malgrado l’uso di ingredienti più sani, risultano più elaborati e quindi più pesanti, addirittura meno salutari del “junk food” che ormai caratterizza la frenetica vita cittadina.
I ricercatori, che hanno analizzato informazioni relative a peso e statura raccolte negli Usa dal National Center for Health Statistics, spiegano la scoperta citando in particolare due elementi fondamentali nello stile di vita rurale: in campagna la cultura alimentare spinge a mangiare con estrema frequenza, soprattutto carni e dessert; a questo si unisce anche l’isolamento fisico e le maggiori difficotà di accesso all’assistenza sanitaria e ai programmi di prevenzione. Inoltre, in campagna, secondo i ricercatori, mancherebbe una cultura dell’attività fisica tipica invece delle città.
Nel nostro paese, invece, succede il contrario, nonostante i dati sull’obesità italiana siano davvero sconfortanti. Secondo la recente fotografia scattata dall’Istat, negli ultimi otto anni le persone a rischio sovrappeso sono arrivate ad essere il 40,1 per cento della popolazione (+4 per cento). Preoccupante il dato tra i più piccoli, nella fascia sotto i sedici anni, che ha conferito all’Italia il primato europeo per l’obesità infantile. “La ricerca della University of Kansas sembra in controtendenza – spiega Gianvincenzo Barba dell’Istituto di Scienze dell’Alimentazione del CNR –: precedenti studi mostrano una tendenza più elevata al sovrappeso in aree con maggiore sovraffollamento e densità, come quelle urbane. Dal nostro studio IDEFICS, sull’associazione tra grado di urbanizzazione e adiposità in età pediatrica, condotto nella provincia di Avellino, è emerso infatti che nelle zone rurali si tende ad essere più magri: vivere in un contesto urbano è associato dunque ad un maggior grado di adiposità rispetto ad un contesto rurale. Credo comunque che un confronto tra gli Usa e l’Italia non sia in tal senso possibile, se non altro per dimensioni del territorio e conformazione di queste aree”.
L’evidenza emersa dallo studio IDEFICS, finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del Sesto Programma Quadro, potrebbe essere in parte spiegata dai diversi stili di vita, con particolare riferimento all’attività fisica, suggerendo che quella non strutturata possa svolgere in età pediatrica un ruolo preponderante rispetto a quella strutturata. Non sembra quindi una questione di cibo più o meno sano. “Non esistono alimenti buoni e alimenti cattivi e il contenuto nutrizionale di un cibo dipende dal tipo di terreno – chiarisce Barba -: anche un cibo genuino consumato in eccesso diventa poco sano. Piuttosto, la questione sembra essere un’altra: diminuire le calorie non ci ha portato alla soluzione del problema peso, quindi vuol dire che al quadro manca ancora un tassello ed è in questa direzione che va concentrato l’impegno della ricerca. Il sovrappeso e l’obesità vanno inseriti in un più generale contesto sociale, culturale e di sviluppo”.
di Chiara Di Martino