C’è una parola che è ancora pressochè sconosciuta in Italia, ma di uso comune nei Paesi europei (e maggiormente civilizzati del nostro). Trattasi del congedo di paternità, che soltanto in questi mesi si è concretizzato (soltanto in parte, a dirla tutta) con la riforma del mercato del lavoro firmata dal ministro Elsa Fornero.

Diciamo solo in parte perché – seppure introduce il congedo di paternità obbligatorio – lo limita di fatto per soli tre giorni continuativi con indennità pari al 100% della retribuzione “previo accordo con la madre e in sua sostituzione, in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest’ultima”. Nella normativa resta inalterato il congedo parentale, che può essere preso – almeno per quei lavoratori tutelati da contratti che lo prevedano – entro gli otto anni di età del bambino e non oltre i sette mesi continuativi o frazionati ma con una riduzione al 30% della retribuzione. Da noi questa normativa così penalizzante determina come soltanto il 6.9% dei papà lavoratori chieda il congedo.

Accennavamo al resto dei Paesi civilizzati: in Germania il papà può dividere il permesso con la madre fino ad un anno al 67% della retribuzione, in Norvegia puà richiedere dodici settimane di congedo retribuito al 100%, in Francia e Gran Bretagna le settimane rigorosamente obbligatorie sono due, mentre in Svezia addirittura i mesi sono due con una retribuzione all’80%. Alessandro Volta, autore del volume “Mi è nato un papà” edito da Feltrinelli, afferma che il problema è tutto nella mancanza di copertura economica: “Il congedo di paternità ha poca presa in Italia perché c’è una decurtazione eccessiva del reddito. Non è un problema di riduzione delle opportunità di carriera, ma guadagnare soltanto il 30% dello stipendio è penalizzante”.

Chissà se in fondo le ragioni sono anche altre, non ultimo quelle culturali. La figura del papà in aspettativa implica una ridefinizione dei nostri orizzonti culturali. E una società come la nostra, così maschilista nella gestione dei rapporti di forza e potere (oltre che di lavoro) in azienda, purtroppo non è pronta per questo passaggio. Paradossalmente sono proprio le professioni dei wwworkers, i lavoratori della rete, a metterci di fronte alle prime vere esperienze di papà-lavoratori che stanno a casa e magari insieme ai figli. Perché il problema è anche una vicinanza fisica, oltre che mentale. In quel caso, però, subentra un tema di coperture e tutele previdenziali.

Comunque pensando ai papà che aspettano un figlio, mi viene alla mente la storia di un papà lavoratore che, al sopraggiungere inaspettato di una malattia molto invasiva per il suo figliolo di pochi anni, attraverso pressioni costanti fu costretto a lasciare il lavoro (tempo indeterminato in un teatro stabile italiano) e a mettersi in proprio. Massimiliano Colangelo, questo il nome del papà, decise a quel punto di non darsi per vinto e di imprenditorializzarsi grazie alla rete. La storia di Massimiliano l’ho raccontata in un post di qualche mese fa, ed è uno stimolo a tutti coloro – non solo papà – che scommettono sulla cosa più preziosa. La famiglia.

In coda al post mi piace ricordare un’affermazione di Alessandro Volta. In una intervista di alcune settimane fa e commentando proprio l’introduzione del congedo di paternità in Italia, così ha dichiarato: “E’ una norma che va nella direzione giusta perché dice al lavoratore: il tuo lavoro in quel giorno è quello lì, devi fare il padre”. Un bel messaggio. 

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