La prima cosa che salta agli occhi, a sfogliare il primo numero di “Pubblico“, è che non contiene un settore o una pagina o una rubrica di notizie. Anzi, a sfogliare e risfogliare le 24 pagine del quotidiano – che, nella bacheca “di sinistra” delle edicole italiane, si aggiunge all’Unità, al Fatto, al Manifesto e ad Europa, e al vuoto lasciato dal Riformista, da Liberazione e da Terra – si rileva che non c’è una sola notizia del giorno. Dalla prima all’ultima pagina, è tutto una successione di corpose e più o meno importanti inchieste, approfondimenti e interviste naturalmente sull’attualità.
Certo, siamo al primo numero di una nuova pubblicazione, per definizione carica di servizi preparati nei giorni e nelle settimane precedenti l’esordio in edicola e soprattutto di intenti programmatici. Ma si farebbe torto a chi l’ha confezionato se si pensasse che, nell’abolizione pressoché totale delle notizie del giorno, anzi del giorno prima (che dai primordi della stampa caratterizza e giustifica l’esistenza dei quotidiani), vi sia solo questo.
Certo, siamo ai tempi del trionfo dell’informazione on line e chi fa oggi un nuovo quotidiano cartaceo potrebbe anche dirsi: siccome il mio pubblico potenziale acquisisce le notizie in rete, pochi secondi o pochi minuti dopo l’evento o comunque il fatto al quale fanno riferimento, perché dovrei dargliele 24 ore dopo su carta, invece di dare un senso e una utilità alle mie pagine fornendo approfondimenti su quelle notizie, già lette e rilette, e trasmesse e ritrasmesse dai telegiornali? Purtroppo, però, tale considerazione è priva di qualsiasi senso logico, tecnico-professionale o di mercato. Se l’avesse, le conclusioni sarebbero quelle che infatti traggono in molti, in tutto il mondo: il quotidiano su carta è morto, i quotidiani esistenti pian piano si duplicano in rete e progressivamente abbandonano carta ed edicole. Ma chi ragiona così non fa certamente un nuovo quotidiano.
Se lo si fa, vuol dire che si ritiene che esso abbia ancora un senso, una utilità, uno spazio e un mercato. E quindi, lo si fa come va fatto: notizie e fatti, e insieme quella che negli anni Settanta, con l’esordio in edicola di Repubblica, si definì la “settimanalizzazione” dei quotidiani, vale a dire l’approfondimento dei fatti, le interviste, le inchieste ecc..
In effetti, al di là della stessa consapevolezza di quel desk, la novità assoluta rappresentata dal primo numero di “Pubblico”, vale a dire di un quotidiano senza notizie – probabilmente il primo assoluto nella storia dell’informazione quotidiana nazionale e mondiale – andrebbe messa in riferimento, più che al trionfante futuro digitale che è già qui, alla irresistibile sopravvivenza di un passato che è ancora qui. Un passato che riguarda i criteri e le finalità che storicamente hanno caratterizzato in Italia l’esistenza e la fattura dei quotidiani: un giornalismo che ha sempre privilegiato i commenti, gli editoriali e i corsivi rispetto ai fatti, alle notizie, alla realtà di ogni giorno; giornali schierati e di parte. Insomma, giornali “d’opinione”. Da sempre i quotidiani italiani – legati pressoché tutti a centri di potere economico, finanziario e politico, e direttamente di proprietà non di editori ma di finanzieri e industriali interessati a fare favori e a mantenere buoni rapporti con la politica – sono stati refrattari prima alla formula “giornali di notizie e di utili avvisi” e poi a quella “i fatti separati dalle opinioni”. Perciò non abbiamo mai avuto un mercato dell’informazione (e non lo abbiamo avuto, con le note caratteristiche prima monopolistiche e poi duopolistiche, nemmeno con l’avvento della Tv). Perciò la diffusione dei quotidiani da noi è stata sempre fra le più basse al mondo. Perciò i non-editori se la sono presa prima con la radio, poi con la tv e oggi con Internet, continuando a non svolgere la propria funzione, a non occupare il proprio spazio, a dichiararsi (ed ad essere) morti prima ancora di venire uccisi.
Nel nostro Paese continuano a mancare un mercato dell’informazione e una rete di giornali di informazione (e non “di formazione” o più brutalmente di disinformazione), articolata in solidi e diffusi giornali locali e in poche e autorevoli testate nazionali d’opinione, come in ogni altro paese civile. E si continuano a registrare da un canto la progressiva insussistenza dell’informazione locale – che anche i più pessimisti sulla sorte dei “cartacei” considerano una nicchia vitale in epoca digitale – e dall’altro la nascita di più o meno piccoli o grandi o duraturi giornali nazionali d’opinione, perlopiù nettamente schierati, quando non chiaramente controllati da specifici pezzi del potere politico o finanziario.
Si vedrà col prosieguo delle pubblicazioni se i confezionatori di “Pubblico” decideranno o riusciranno a continuare a tener fuori dalle sue pagine fatti e notizie. Ma è certo che anch’esso si inscrive esplicitamente e programmaticamente, al di là di qualsiasi considerazione logica e di mercato, nella categoria dei giornali d’opinione: in testata “dalla parte degli ultimi e dei primi”, nei fatti si vedrà.