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Usa, ecco come il candidato Romney è diventato l’ispettore Closeau

Il discorso “rubato” è soltanto l’ultimo esempio di una campagna costellata di sbagli. Prima la gaffe sulle Olimpiadi, poi il discorso alla Convention in cui aveva “dimenticato” l’Afghanistan. Quindi l’attacco alla politica estera di Obama in piena crisi dopo l'assalto al consolato in Libia. E poi una frase su tutte: “E’ bello poter licenziare la gente che lavora per te”

“Doveva essere il businessman che salva l’economia americana. Ora, tra noi, lo chiamiamo Ispettor Clouseau”. Non è tenero, George Mitchell, nei confronti di Mitt Romney. Quarantedue anni, due figli, un piccolo caffè elegante che fa funzionare con la moglie a Menomonie, Wisconsin, George è un social conservative, un conservatore religioso da anni impegnato nel partito repubblicano. Alle primarie ha scelto Herman Cain. Poi, come tanti amici e conoscenti, è passato a far campagna per Mitt Romney. La delusione a questo punto è tanta. “Non ci siamo mai illusi che fosse il nostro candidato. Non immaginavamo però un tale disastro”. 

George è solo un militante e dice apertamente quello che molti big del partito, analisti, advisor repubblicani pensano ma non dicono. E cioè che la campagna di Romney è ormai travolta da troppi errori e gaffe e che, a meno di improbabili colpi di scena, ci sono poche possibilità di rimettere insieme i cocci. Qualcuno tra i conservatori in questi ultimi giorni ha comunque cercato di parlar chiaro. Peggy Noonan, autrice dei più celebri discorsi di Ronald Reagan, ha scritto sul “Wall Street Journal” che “è arrivato il momento di ammettere che la campagna di Romney è incompetente. Non è alta, non è coraggiosa, non affronta le grandi questioni. E’ sempre troppo piccola rispetto alle necessità”. E David Brooks, un opinionista moderato del “New York Times”, ha scritto che Romney “sta conducendo una campagna presidenziale deprimente e inetta”.

Il discorso “rubato” di Romney a un gruppo di ricchi finanziatori, in cui il candidato accusa il 47% degli americani di sentirsi “vittima” e di far dipendere la propria sopravvivenza dal governo federale, è soltanto l’ultimo esempio di una campagna costellata da tanti, troppi sbagli. Prima c’era stata la visita a Londra, in piene Olimpiadi, e la dichiarazione sulle “cose che non funzionano bene”, che aveva fatto infuriare gli inglesi. Dopo era venuto il discorso alla Convention repubblicana di Tampa, dove dal podio Romney si era “dimenticato” di citare l’Afghanistan e di ringraziare i soldati impegnati all’estero. E più avanti l’attacco alla politica estera di Obama in piena crisi delle ambasciate in Egitto e Libia. Come dimenticare poi battute tipo: “E’ bello poter licenziare la gente che lavora per te”, che il candidato pronunciò di fronte ad altri uomini d’affari?

I risultati sono impietosi. Romney è dietro Barack Obama praticamente in tutte le ultime rilevazioni nazionali. Pochi punti, ma comunque sufficienti a far scattare l’allarme rosso. Un sondaggio NBC News/Wall Street Journal, pubblicato martedì notte, dà ad Obama 5 punti di vantaggio. Più basso lo scarto, un solo punto percentuale, in un sondaggio AP/Gfk, mentre il Pew Research Center colloca Obama al 51%, contro il 43% di Romney. La situazione è ancora più drammatica, per l’ex-governatore del Massachusetts, se si passa a considerare i battleground states che bisogna assolutamente conquistare per vincere il 6 novembre. Dei quattro che assegnano un numero consistente di voti elettorali – Ohio, Virginia, Florida, North Carolina – Obama appare in netto vantaggio in almeno due: Ohio (dove un sondaggio NBC/WSJ dà il presidente avanti di ben sette punti) e Virginia (+ 5 per Obama). Anche la Florida pare inclinare verso i democratici, mentre soltanto la North Carolina appare alla portata di Romney. Non sembra esserci storia in Pennsylvania, dove Obama guida con un vantaggio di 11 punti, e nemmeno in Wisconsin. Qui i repubblicani avevano puntato molto, tanto da designare Paul Ryan, deputato dello Stato, come vice di Romney. Anche qui le cose non sono andate come sperato. Una rilevazione CBS/New York Times dà Romney indietro di ben sei punti.

Sotto accusa, a questo punto, è Stuart Stevens e tutto il team che ha accompagnato Romney nella campagna elettorale. “Hanno pensato che bastasse parlare di lavoro, lavoro, lavoro, e gli americani avrebbero votato per Romney”, ha scritto Roger Simon su “Politico”. Non è stato così. L’occupazione resta il centro della campagna, ma gli americani non sembrano disponibili a firmare assegni in bianco a un candidato che ha reso pubbliche soltanto le due ultime dichiarazioni delle tasse, chiedendo agli americani di dargli fiducia per tutte le precedenti, e che ha mantenuto conti in banca in Svizzera e alle Cayman. Stevens e gli altri advisor non sono riusciti a convincere Romney a chiudere i conti esteri. Non sono riusciti, soprattutto, a trasformare l’immagine di spregiudicato affarista che Romney continua nonostante tutto a portarsi dietro. Come ha dovuto ammettere un altro repubblicano, Haley Barbour, Romney per gli americani resta “un ricco plutocrate con una nota cavallerizza come moglie”.  

Al fondo di tutto c’è comunque lui, il candidato che non è mai riuscito a strappare da sé l’aura di privilegio arrogante trasmessa da nascita e ricchezza. “Scommettiamo 10 mila dollari?”, disse Romney a un incredulo Rick Perry durante un dibattito alle primarie repubblicane. Diecimila dollari, la metà di quanto molti americani portano a casa in un anno, era per il businessman di successo una somma da scommessa con gli amici. Da allora, nonostante ripetuti e disperati tentativi di proporsi come paladino della classe media, il suo darwinismo sociale è periodicamente riemerso. E’ riemerso parlando del conflitto israelo-palestinese, quando Romney spiegò che “le differenze di condizioni tra israeliani e palestinesi dipendono dalla superiorità culturale di Israele”. Ed è riemerso nel discorso contro la metà di americani che per vivere devono ricorrere a qualche aiuto dello Stato.  

“E’ rimasto un Ceo, non è un animale politico”, dice ora Tom Davis, deputato repubblicano della Virginia. E il Ceo proprio non ce la fa a mascherare la superiorità di classe nei confronti del resto del mondo. “Sembra disprezzare non soltanto i democratici che lo combattono, ma anche milioni di persone che vorrebbero votare per lui”, ha scritto, allibito, un conservatore di ferro come William Kristol. Ancora ieri, dopo la battuta sul 47%, Romney non era tra quei milioni di persone “che vorrebbero votare per lui”. Era in Texas e Utah, a incontrare in riunioni privatissime altri miliardari che stanno, copiosamente, finanziando la sua campagna.