L’importanza della carriera di Piera Degli Esposti non si misura per il lungo, ma per il largo. Non è il tempo l’esatta unità di misura di ciò che Piera ha dato alla cultura italiana, bensì la vista, il panorama che ci ha messo a disposizione da quelle stanze artistiche che, con coraggio e ostinazione, ha voluto visitassimo grazie a lei. Teatro, cinema, televisione, letteratura; ogni stanza una finestra con Piera dietro al vetro.
«A questo punto – si schernisce – di stanze ne manca una; lo sai che a casa di Lucio (Dalla) ne avevo una tutta per me?».
Rendere apparentemente semplice e naturale una carriera fatta di scelte difficili e senza compromessi è stata forse la sua più grande performance.
Teatro (come attrice e regista), cinema e televisione (oltre cinquanta lavori fra grande e piccolo schermo), non c’è dimensione attoriale che l’attrice bolognese non abbia sperimentato, e “sperimentale” è davvero la parola giusta. Non ci riferiamo solo alla formazione teatrale di Piera, dal Teatro dei 101 di Antonio Calenda al fianco di gente come Gigi Proietti e Nando Gazzolo, fino al Teatro Stabile dell’Aquila tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta. Anche sul grande e piccolo schermo Piera cammina coraggiosamente al fianco di gente come – fra gli altri – Pasolini (Medea), Gregoretti (il televisivo Circolo Pickwick), Nanni Moretti (Sogni d’oro), Ferreri (per il quale è anche sceneggiatrice di quel Storia di Piera, già romanzo a quattro mani insieme all’amica Dacia Maraini) Marco Bellocchio (L’ora di religione) Tornatore (La sconosciuta) e nel Divo di Sorrentino dove interpreta Vicenza Enea, la storica segretaria di Giulio Andreotti.
Piera è nata a Bologna nel 1939 e proprio a Bologna la scorsa settimana era presente alla posa (in via Orefici) della stella in onore di Lucio Dalla. L’occasione buona per scambiare quattro chiacchiere. Un incontro che non poteva dunque che partire dal ricordo di Lucio Dalla e Roberto Roversi strappati in questo terribile 2012 alla nostra città…
«Diciamo subito una cosa impopolare, ma chi se ne frega, io credo che non tutti abbiano il diritto all’immortalità. Ci sono però persone, non necessariamente artisti, che la meritano. Quando penso a chi merita l’immortalità mi viene in mente Lucio, uno che rideva così non muore. La sua ironia prima di tutto e poi la sua fisicità, il suo saper occupare lo spazio vitale delle persone come nessun altro. Allo stesso modo penso che anche Roberto Roversi (che conoscevo molto meno), con la sua poesia la sua grande coscienza civile, e il suo sapersi mettere in gioco (scrivere canzoni per Lucio, all’epoca era una bella scommessa). Con la dipartita di Lucio e Roversi Bologna perde, prima di tutto, due grandi giocatori. Due che al tavolo verde della vita, ognuno a modo suo, hanno scommesso tutto. Un grande perdita per la bolognesità…».
Eccola tornare questa parola, la “bolognesità” di cui sempre si parla ma il cui vero volto resta ancora velato «Quando parlo di bolognesità – prosegue la Degli Esposti – dobbiamo partire dalle sue avvisaglie, la più evidente di queste è la fatica che facciamo noi bolognesi a lasciare questa città. Un fatica immane, come fossimo incatenati a questi portici. Detto questo per me la bolognesità è un impasto di aspetti, in grande maggioranza positivi ma anche negativi».
Partiamo dai primi.
«Bologna è una sete. Una sete di cultura, di libri, di teatro, di cinema, di cucina, di carne, di sesso. Bologna appaga e al contempo si nutre di questa stessa sete. Qua c’è tutto quello per cui siamo al mondo. E poi il rapporto fra le persone. Faccio un esempio; a volte mi fermavo a bere un caffè con Lucio e Marco (Alemanno) in un bar poco distante dalla Piazza Maggiore. Ad un certo punto io e Marco andavamo a farci un giretto, magari un passaggio in libreria, mentre Lucio restava lì. Tornavamo dal giretto e lo ritrovavamo fermo, seduto dove lo avevamo lasciato a fare quello che ogni giorno faceva; ricambiare chi lo salutava. Immancabilmente qualche passante gli diceva “Ciao Lucio” e lui rispondeva “Ciao”. Non so spiegare meglio di così, ma Bologna per me è Lucio che fa questo».
Per gli aspetti negativi della bolognesità invece, ci spostiamo sotto i portici. «Sotto i nostri portici sento i bolognesi borbottare, non dico piangersi addosso (noi sappiamo tirarci su le maniche) ma questa continua pentola in bollore un po’ insoddisfatta di tutto e al contempo un po’ distante da tutto. Una sorta di bonaria oscurità un po’, passami il termine, curiale, pretesca. Una dimensione che rispetto ma non mi appartiene affatto».
Ma è bolognese Piera, si vede da come, appena terminato di parlare di Bologna ha ancora una cosa che vuole dire su di lei: «Eppure c’è una cosa bellissima che devo aggiungere. Recitare è un corpo a corpo con la memoria, una memoria che deve far posto a nuove parole e cancellarne altre, ma io le vie di Bologna, i nomi delle strade di questa città, me li ricordo tutti. Sembra che mi seguano e siano loro a raggiungermi ovunque io vada».
L’hanno seguita fino a Roma, una città in qualche modo obbligata per chi vuole fare cinema, ed è da questa parola che Piera riparte. «A proposito di cinema, io non capisco questo clima di negatività attorno al cinema italiano e al suo stato di salute. Ma dico, abbiamo la fortuna di avere gente come Garrone, Sorrentino, Virzì e tanti altri, e ci lamentiamo?».
Il cinema è stato per Piera l’occasione di misurarsi con alcuni fuoriclasse, tanto bravi sul set quanto difficili fuori… «Bè sai, te ne dico uno per tutti, Marco Ferreri mica era uno semplice eh, eppure era grande, grandissimo. E poi Moretti… Andavo a casa sua, io mica la volevo fare la parte della madre (in Sogni d’oro) e stava pure per ingaggiare Carmelo Bene per la parte del padre, ma Carmelo gli rispose che aveva mal di denti…».
Ricorda con grande piacere anche i fratelli Taviani. «Fra i più grandi di tutti, ma dico, quando uno vede un film come Cesare deve morire, che vuole ancora dal cinema italiano?»
Ma il presente di Piera è la tv, la fiction in particolare. «Anche lì, quando m’è piombata addosso la possibilità di fare fiction, tante persone a me care me lo sconsigliavano, e invece sento di aver fatto bene a misurarmi con questa nuova sfida. Penso a cose come Tutti pazzi per amore, o Una grande famiglia; credo di esser stata capace di “rimpicciolire” (mi si passi il termine, lo dico in senso buono) la mia recitazione abituata a spazi larghi (il grande schermo o il palcoscenico) ad una dimensione che calza molto bene la tv».
Finiamo per ragionare di altri aspetti della televisione, di come in questo periodo la tv non neghi a nessuno i gradi di commissario o una frittura di cotolette, che lei si accende. «Ecco, per le cotolette magari c’è tempo, ma quello del commissario è un grande sogno che purtroppo sta diventando tarlo per me; perché nessuno mi fa fare il commissario? Hanno idea i produttori italiani di che razza di commissario potrei essere?».
Credevo di aver finito la chiacchierata quando sento che c’è ancora qualcosa che vuole dirmi, e da come le cambia la voce ha tutta l’aria di essere la cosa più importante della nostra chiacchierata. «Comunque io e Lucio Dalla andavamo insieme sui colli in Lambretta, scrivete Lambretta e non Vespa che sennò si arrabbia come allora. Lo tenevo stretto ai fianchi, era cicciottello. Poi, anni dopo quando la sua carriera ebbe l’impennata e le esigenze dello spettacolo lo esigevano, era dimagrito. Ci rimase male quando ci incontrammo, io lo squadrai facendo un passo indietro e gli dissi “Non hai nemmeno più i fianchi alla Robert Mitchum” – e conclude – Sento molte persone dire che Lucio tutto sommato, nella tragedia sia chiaro, è stato fortunato ad andarsene così, in un attimo. Ma questa mi sembra solo una consolazione di noi vivi».