In Romagna ci sono luoghi dove per invitare qualcuno a assaggiare la bontà di un cibo si dice «sènt l’amor clá»: «senti l’amore che ha». Un modo di dire che è anche una chiave per aprire i cassetti della memoria estraendone nutrimenti per il presente. In un tempo in cui l’italiano era la seconda lingua per quasi tutti, e in casa si parlava il dialetto, si diceva così per riferirsi alle tagliatelle al ragù o alla crosticina fumante e croccante della minestra al forno al pranzo della domenica (1).
«Sènt l’amor clá» é un’espressione in cui la sovrapposizione di significato tra «amore» e «sapore» era completa e nessuno poteva dubitare del senso: doveva ancora cominciare il doppio gioco del linguaggio pubblicitario, quello che ci impregna la vita da mattina a sera, quello del “fare l’amore con il sapore” per intenderci. Era il tempo in cui con «Sènt l’amor clá» ci si riferiva al sapore del cibo e buona notte suonatori. Nessun doppio senso era possibile.
Eppure. È una frase che se, oggi, la traduciamo in italiano c’è da restare sbattezzati: “senti l’amore che ha” arriva con tutta la forza trasmessaci da chi è venuto prima di noi nei secoli dei secoli. Quel che era la prelibatezza del cibo diventa la potenza del nutrimento. Un nutrimento femminile e arcaico. Racchiuso nei gesti silenziosi delle arzdore che tiravano la pasta sfoglia per dar da mangiare a tutta la famiglia. E lo facevano con un movimento che era danza faticosa, ma sempre danza era.
Non c’era tempo per i sentimenti in quel tempo (ma ce n’è oggi?). Bisognava faticare per mangiare, eppure attraverso il nutrimento passava l’amore. Forse era l’unico luogo ove era concesso. Un mistero svelato da quella lingua brutta che è l’italiano di oggi imbastardito da inglese, computer e pubblicità televisive.
La potenza della lingua è proprio questa. Di solito i nostalgici del dialetto lamentano la mancanza della purezza originaria in seguito all’avvento dell’italiano. Spesso hanno ragione, ma qualche volta, come in questo caso, accade anche il contrario. Quando l’italiano meticcia il dialetto può succedere che si alzi il velo che copriva le radici la cui forza generativa ci si para di fronte lasciandoci a bocca aperta.
Può accadere che l’italiano porti alla luce sentimenti nascosti anche ai nostri nonni, che quella lingua praticavano quotidianamente, appunto. È come se l’evoluzione del linguaggio, che a volte ci lascia sconcertati, ci costringesse a guardare ai luoghi che abbiamo dimenticato, ma restano come cromosomi muti nel DNA: ereditá di mille generazioni passate.
Ci sono molti nostalgici del dialetto. Come se questo fosse sempre stato quello che gli adulti di oggi hanno conosciuto da bambini. Ma questa è la nostalgia alla Raul Casadei. C’é altro oltre il folklore. Il dialetto del passato, che a noi sembra un monolite, era anche quella una creatura in divenire. Come oggi, come sempre. In questi tempi oscuri il linguaggio è, forse, il bene comune più accessibile per il cambiamento. Più dell’acqua, più di internet e anche più della democrazia.
Perché il potere ha bisogno del linguaggio per comandare. E anche se le cose si possono mistificare per un po’, anche per vent’anni in un paese come il nostro, a un certo punto una pianta inaspettata comincia a germinare. È quella che riesce a attingere a una radice dimenticata, forse creduta morta, e la danza ricomincia.
Perchè certe tagliatelle, e certe minestre al forno, non sono solo ricette: sono viaggi iniziatici per chi si affaccia al sentire dell’amore. Che se Castaneda avesse saputo che esistevano non avrebbe mica avuto bisogno di certi funghi per scrivere i suoi libri. Come vuole dimostrare questo articolo, scritto sotto l’effetto delle tagliatelle fumanti del Gallo, una locanda di Alfonsine che chi non sa che c’è è meglio che resti ignorante.
(1) Quelle che per tutti gli altri sono le “lasagne” in Romagna diventano “La minestra” o, a volte, tagliatelle. Ma è meglio lasciar perdere. Qui le differenze sono secolari e irriducibili.