Aveva di bello Syd Barrett che sprecava il suo talento. Ecco. E questo non l’ho detto io. Sappiatelo. Lo dicono tutti quelli che l’hanno conosciuto. Per me Syd Barrett poteva essere chiunque, persino il parrucchiere sotto casa oppure il più grande riempitore di stadi della galassia; e fare qualunque cosa, dalla spesa il sabato alle partite di subbuteo fino anche a infilarsi le dita nel naso ai semafori; l’avrei amato lo stesso. Per il coraggio di “Lanky”, per la semplicità sconvolgente di “It Is Obvious” o per la follia devastante di “Golden hair” e “Jugband Blues” e ne sto citando solo alcuni.
Che poi il primo incontro con Syd Barrett, un po’ come tutti i grandi amori, comincia quasi sempre con “ma che è musica questa?” (Per gli amori in senso fisico sostituire “musica” con “uomo/donna”). E poi ci caschi con tutte le zeppe. Perché la musica, come l’amore, ti conquista con i dettagli, anche dalla loro assenza, e ha bisogno di tempo per ricavarsi uno spazio tra le tue mille cose da fare e disfare. Insomma, Syd Barrett era un casino di uomo. Si presentava ai concerti con la chitarra scordata, a volte nemmeno suonava, diceva sempre “sì” e poi faceva come gli pareva (come le migliori mogli e fidanzate). A chiunque. Ma Syd Barrett è quel genio che ha battezzato i Pink Floyd. Che ha dato il parto a una delle pietre miliari della musica mondiale. E, giusto per ribadire, il nome Pink Floyd non deriva dalla leggenda metropolitana che l’LSD ti fa vedere gli elefanti rosa, i flussi rosa, i lampioni rosa, gli hamburger rosa, ecc.ecc.
Pink Floyd viene da Pink Anderson e Floyd Council, due cantanti blues americani. Perché Syd era quello che amava il blues e diede la scintilla alla musica psichedelica, scoprì l’America cercando di raggiungere le Indie. E’ già successo. Gli aneddoti si sprecano e magari chissà quanto sono veri: che si lavò i denti tenendo fermo lo spazzolino; saltando lui. Eh. (Cito volontariamente discorsi da bancone londinese, mica fonti attendibili. Così per tentare di compilare un elenco del surreale), che nessuno lo riconobbe dopo solo due anni che era andato via perché si aggirava in studio grasso e vestito “all’americana”. Piansero quando lo riconobbero.
Per tutti quelli che lo conoscevano è sempre stato un cadavere, uno che da un momento all’altro avrebbe lasciato questo mondo. E’ che a lui, questo mondo qui, forse non interessava. Sembrava fatto quando non si faceva e normale quando si faceva. Non ci capiva niente nessuno. Ha provato a capirci qualcosa e a raccontarcela Rob Chapman con “Syd Barrett. Un pensiero irregolare” (Ed. Nuovi Equilibri, 2012), l’ultimo libro di una lunga serie di biografie su Syd e fornisce ulteriori tasselli della sua vita scapigliata, ma la verità è che si continua a alimentare un mito della persona a discapito delle sue opere. Leggere di Syd Barrett e dei suoi conflitti con la realtà può essere anche affascinante ma fissare il soffitto ascoltando le sue canzoni e vedere comporsi dei quadri con pennellate di cluster impazziti, beh, quello è Syd Barrett. Un genio entrato nella rosa degli immortali insieme a Joyce, Proust, Flaubert e Velvet Underground, tutti li citano, tutti ne parlano, ce ne fosse uno che li ha letti o ascoltati davvero.