Il 23 settembre 1985 la camorra uccideva Giancarlo Siani, un coraggioso cronista di 26 anni de ‘Il Mattino’ di Napoli, che scriveva di criminalità organizzata e di malaffare a Torre Annunziata. Aveva talento, fiuto, buone fonti e l’intelligenza critica che gli consentiva di riallacciare i fili delle notizie e svilupparle in un’analisi. Ma non aveva grandi conoscenze nell’ambiente giornalistico e la sua carriera avanzava a fatica. Era senza contratto. Era un precario. Puntava all’assunzione, come i tanti precari che come lui seguivano le notizie del territorio napoletano. Il direttore de ‘Il Mattino’, Pasquale Nonno, soltanto dopo la sua morte annunciò che era imminente, che sarebbe arrivata di lì a poco.

Da allora le cose non sono cambiate per chi aspira a fare questo mestiere, soprattutto a Napoli. Provate a immaginare se Siani fosse vivo, oggi, a 26 anni. A quell’età aveva già dimostrato di essere un giornalista di razza, ma in un paese che ha azzerato la meritocrazia conta qualcosa? Tra piccoli quotidiani che aprono e chiudono nello spazio di poco tempo, editori arraffa contributi e scappa, grandi giornali alle prese con piani di tagli e prepensionamento, Siani avrebbe avuto grandi difficoltà a trovare a Napoli una testata adeguata alle sue capacità. E ancora di più a ottenere uno stipendio. Probabilmente avrebbe strappato una collaborazioncina da qualche parte per coprire i commissariati e le caserme. A tre-cinque euro al pezzo. Con un po’ di fortuna, un contrattino da 280-300 euro al mese per un massimo di 20-22 pezzi mensili. Sicuramente i ‘capi’ lo avrebbero tartassato di telefonate anche dopo il raggiungimento della soglia. E avrebbe scritto senza firmare. Senza ricevere un euro in più.

Siani era un giornalista-giornalista e di fronte a queste prassi mortificanti si sarebbe sentito un leone in gabbia. Avrebbe proposto inchieste, approfondimenti, reportage dai luoghi che i redattori inchiodati alla poltrona e ai benefit contrattuali ottenuti negli anni ’80 non hanno mai visto da vicino. Le sue richieste sarebbero state vagliate con fastidio, irritazione. “Ma che cazzo vuole questo? Chi si crede di essere?”. E di fronte alla grande notizia di cronaca, a Siani sarebbe stato chiesto di mettersi da parte per fare spazio alla penna brillante, all’inviato da 5.000 euro al mese, o al prepensionato amico del direttore. Costui, non sapendo un piffero del luogo dove si reca e del contesto nel quale la notizia è accaduta, alla fine scriverà il pezzo sulle informazioni che Siani, gratis, gli avrebbe fornito. Senza nemmeno la soddisfazione di vedere apparire la sua firma.

E non sia mai un Siani dei tempi moderni beccasse una querela, o peggio ancora una condanna. Ci sarebbe il rischio – è accaduto – che il suo giornale non gli copra le spese legali. O peggio ancora gli chieda di risarcire il danno di tasca sua.

A Siani oggi intitolano scuole, strade e premi di giornalismo, organizzati da quei grandi quotidiani che nei fatti preferiscono continuare a fare scrivere un prepensionato perché costa di meno in contributi, invece di dare un’opportunità a un ragazzo pieno di passione e di talento. Ecco, non premi, ma opere di bene: se volete onorare la memoria di Siani, la prossima volta che si libera un buco in una redazione, pensate a lui e provate a fare il contrario.

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