Il bluff di Marchionne continua. L’annuncio che “al momento opportuno” Fiat investirà negli stabilimenti italiani del gruppo e che si punterà sull’export, rischia di andare poco lontano. Non c’è un solo produttore europeo che si azzarda ad assemblare vetture in Europa per venderle in Usa (per di più con un cambio euro\dollaro a 1,3). Ma la realtà è che non tutte le colpe sono di Marchionne che ha utilizzato il costo del lavoro come problema italiano in modo strumentale, per deviare l’attenzione dal problema centrale. Tanto più si discuteva di produttività del lavoro, tanto più si nascondevano i problemi veri del settore.

Tanto per essere chiari: la Fiat non sarebbe produttiva e profittevole nemmeno se ci fossero gli schiavi. Con una aggravante, che in qualche misura deve far pensare. Molti imprenditori metalmeccanici hanno appoggiato la lotta di classe della Fiat su orario di lavoro e salario non perché fosse un modello adeguato per rispondere alla crisi del settore, ma perché tornava utile per imporre condizioni di lavoro restrittive. In qualche misura hanno usato Fiat per un tornaconto personale. Infatti, dopo sono arrivate la riforma del marcato del lavoro e la manomissione dell’articolo 18. Questa è la miseria della classe dirigente italiana. Altro che le parole di responsabilità di Della Valle.

Quando ragioniamo del settore manifatturiero dell’auto, dobbiamo comprendere esattamente di cosa stiamo parlando. Discutiamo di Fiat come se fosse una multinazionale più o meno internazionalizzata, in realtà dobbiamo fare uno sforzo di prospettiva. Indiscutibilmente la Fiat in Italia è una grande impresa, ma a livello internazionale non è solo una piccola società comparata ad altre aziende del settore, ma non ha saputo creare le condizioni per diventare una impresa con grandi economie di scala. Infatti solo a determinate condizioni tecniche era ed è possibile rimanere sul mercato. Se ci pensiamo bene anche Marchionne aveva provato a realizzare delle economie di scala sufficienti per misurarsi con il mercato internazionale.

L’INTERESSE PER OPEL. Appena iniziata la crisi economica, subito dopo l’operazione negli Stati Uniti, Marchionne aveva cercato di costruire più di una alleanza con una società automobilistica tedesca (Opel). Marchionne disse al governo (di centrodestra) che non voleva nessun incentivo per l’acquisto di nuove autovetture perché erano dannosi per il mercato, perché aveva compreso perfettamente che stava cambiando in profondità il mercato dell’auto e solo a determinate condizioni era possibile realizzare degli investimenti. Contemporaneamente aveva tentato di agganciare un Paese che stava diventando uno dei due player internazionali del settore automotive. La Germania aveva cominciato a conquistare quote di mercato e costruito una tale forza di fuoco che avrebbe messo in ginocchio tutti gli altri Paesi: con oltre 6 milioni di auto prodotte si possono abbassare i costi di produzione in misura ben più alta di un paese che a mala pena arriva a 600 mila auto prodotte.

Il settore automotive (auto, pulman, trattori, movimentazione terra ed altri), in particolare l’auto, indipendentemente dagli aiuti diretti e indiretti alle imprese automobilistiche sotto forma di incentivi ai consumi accumulati tra il 1999 e il 2009, ha ridimensionato il proprio peso percentuale sull’intera produzione industriale. Il ridimensionamento non è un fatto aneddotico, piuttosto la tendenza dei settori maturi e di scala ogni qualvolta si affacciano nuove produzioni. Quello che sorprende di più è la velocità e l’intensità del cambiamento del settore rispetto alla produzione manifatturiera tra il 1999 e il 2008.

IL BLUFF. La caduta della domanda del 2011 e del 2012 era più che prevedibile date le politiche restrittive adottate da tutti i Paesi europei. Nell’area della triade industriale il settore automotive è passato dal 19,2% al 14,6% (-23,96%); l’Europa dal 17,6% al 12,5% (-28,98%); il nord America dal 16,2% al 10% (-38%). Diversamente da queste aree, il Giappone ha manifestato una crescita del peso percentuale del settore nell’ambito della produzione manifatturiera del 7,09%, dal 28,2% al 30,2%, anche se nel corso degli ultimi 2 anni ha perso 3 punti percentuali, da 33,3% a 30,2%1. Se queste sono le tendenze, il ridimensionamento del settore non solo è inevitabile, ma muta le politiche delle imprese: da un lato si manifesta la necessità di produrre vetture di nuova generazione a basso consumo ed impatto ambientale per i mercati rigidi dei paesi ricchi; dall’altra la necessità di realizzare vetture a basso costo per i mercati a ridotto tasso di motorizzazione.

Queste due linee di tendenza devono fare i conti con una recessione economica e con la compressione dei consumi dei beni durevoli senza precedenti. Quindi, la ristrutturazione del settore in termini di dimensione di scala (adeguata) e di tipologia di prodotto è ineluttabile, ed è l’unica condizione per rimanere sul mercato. Tra l’altro, essendo l’auto un settore maturo e soggetto a domanda di sostituzione, il saldo finale dell’occupazione sarà obbligatoriamente negativo. Molti economisti dimenticano che un aumento del reddito modifica i consumi, non nel senso che si consuma di più, ma che si consumano cose diverse.

Ecco il nodo della questione: tutti sapevano che il mercato dell’auto sarebbe andato incontro ad una grande crisi di ristrutturazione, ma nessuno ha pensato di guidare il processo di razionalizzazione a livello europeo cercando di salvare quanto di buono esisteva. È vero che la Germania non voleva una ristrutturazione europea (il no della Merkel all’operazione Fiat-Opel è più che mai eloquente), ma gli altri produttori e sindacati avrebbero dovuto affrontare seriamente il problema. La Germania ha fatto in modo che fosse il mercato a selezionare i player, cioè ha fatto in modo che solo le società tedesche potessero rimanere sul mercato. Infatti, solo le società tedesche possono permettersi un guerra dei prezzi rinunciando ad un parte dei profitti, sapendo bene che nessuna altra società europea può seguirli su questa strada. La Fiat come le società francesi fanno fatica a coprire i propri costi fissi.

Più semplicemente, l’eccesso di capacità produttiva e la compressione della domanda tendenziale del settore, causata anche dagli infelici sussidi del 2009, impone la predisposizione di una riforma della struttura produttiva, da settori maturi a settori emergenti. In qualche modo le barriere all’entrata (nel settore delle automotive) sono più alte, cioè solo a determinate condizioni-dimensioni è possibile rimanere sul mercato. Sostanzialmente siamo in presenza di un oligopolio-monopolio tecnico: poche società coprono l’intera domanda.

L’OCCUPAZIONE. Se consideriamo il lavoro diretto e indiretto (distribuzione, finanza, ecc.) il settore occupa quasi 13 milioni di lavoratori (Europa a 27), assieme alla maggiore quota di mercato a livello internazionale. La produzione complessiva dell’Ue a 27 sul totale è pari al 25,5%, Cina al 23%, Nafta (Nord America e Messico) 14,6%, Giappone al 13,2%, America Latina 6,2%, con una a produzione che oscilla tra i 16,7 milioni e 17,7 milioni di unità, con una capacità di utilizzo degli impianti media del 65%, rispetto al target “typical profitably zone” del 79%. La principale differenza del settore dell’auto europeo da quello di altre aree economiche è il minor grado di concentrazione.

Infatti il settore non si limita all’assemblaggio e alla produzione di motori, ma opera nei testing, distribuzione e vendita, manutenzione, riciclo e smaltimento dei mezzi. Inoltre, i componenti automotive sono realizzati in strutture verticalmente integrate con la casa madre. Il tratto distintivo per tutte le case automotive è la separazione del braccio finanziario da quello produttivo, che affianca i “consumatori”, il network, il leasing activities. Inoltre, la componente finanziaria realizza un “valore” superiore rispetto al comparto produttivo, come se la produzione fosse di supporto alla finanza, anche se in termini occupazionali e strumentali la produzione d’auto rimane il core business.

L’EVOLUZIONE DEL MERCATO. Il confronto tra i principali Paesi-competitors europei del settore permette di individuare il soggetto (economico e politico) driver della necessaria ristrutturazione del settore delle automotive. Non tutti si sono accorti, ma questa ristrutturazione il mercato l’ha già quasi fatta. La Germania è passata dal 29,93 al 32,50%; la Francia dal 20,45% al 14,44%; l’Italia dal 7,81% al 5,54%. Sostanzialmente Germania e Giappone, in misura minore gli USA, sono i principali players del settore, con attività e dimensioni che condizionano la ristrutturazione (necessaria) del settore. L’analisi dei brevetti del settore, cioè la tutela legale per le nuove produzioni, è abbastanza eloquente: i brevetti europei (Germania) sono pari al 55%, Giappone 22,8%, Nafta 16,0%. Più in particolare la Germania è l’unico paese che è riuscito a mantenere l’utilizzo degli impianti sopra alla soglia critica del 79%, cioè la “typical profitability zone”, sia prima della crisi e sia durante la crisi.

Approfondendo il confronto tra Germania e Italia del settore è possibile cogliere il vantaggio della Germania rispetto a tutti gli altri paesi, in particolare dell’Italia. Infatti, in Germania l’automotive sul complesso della produzione manifatturiera pesa per l’11,80%, mentre in Italia vale il 3,60%. Quindi la crisi della Fiat è una crisi industriale di struttura, non di mancati investimenti.

GLI INVESTIMENTI MANCATI. Circa i presunti mancati investimenti della Fiat non c’è da sorprendersi come non c’è da sorprendersi degli investimenti realizzati dalle imprese tedesche del settore. Utilizzando Keynes si può dire: non possiamo chiedere alle imprese in un periodo di crisi di sviluppare dei nuovi investimenti. La Germania ha tutto l’interesse a sviluppare degli investimenti in nuovi modelli e nuovi prodotti. Ogni investimento alza le barriere all’entrata del settore e garantisce un profitto legato alla conquista di nuovi mercati liberati dai concorrenti più deboli. La Fiat se investisse non farebbe altro che produrre perdite. La sua dimensione di scala non gli permette di ammortizzare questi investimenti nella misura delle imprese tedesche. Fin dall’inizio era evidente che Fabbrica Italia era una presa per i fondelli.

Cosa si potrebbe fare? Forse è giunto il momento di coinvolgere la Commissione Europea per guidare il necessario processo di ristrutturazione del settore delle automotive, in particolare quello dell’auto. Se l’Europa non interviene come agente economico, l’unico equilibrio del settore è quello determinato dal dumping fiscale e salariale che si realizza nei paesi. Sostanzialmente la ristrutturazione si realizza non sul principio della corretta allocazione delle risorse (scarse) e dei vantaggi comparati, ma agirebbe solo dal lato dei costi fiscali. Un esito che, paradossalmente, allontana dal mercato tutte le case automobilistiche. Per queste ragioni l’Europa dovrebbe assumere un ruolo guida del necessario processo di ristrutturazione del settore, sulla base delle competenze, delle economie di scala, nonché dell’orizzonte europeo in materia di green economy. In oltre, l’intervento della Commissione permetterebbe di uscire dalle logiche locali, statali e fiscali, consegnando il progetto automotive alla politica industriale europea, evitando di mettere in competizione le diverse società automobilistiche sulla base dei diritti dei lavoratori.

di Andrea Di Stefano e Roberto Romano

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